Mini recensione del film di Barbie (e degli addominali di Ryan Gosling)
Prima di entrare in sala a guardare Barbie chiedetevi cosa avete voglia di vedere: un film sulle bambole con cui avete giocato - probabilmente dimenticandovi di comprare Ken e facendo uno scempio in testa ad almeno una di loro provando a tagliarle i capelli (e allora ricordatevi di staccare il cervello quando tra una battuta e l'altra si parla di femminismo e patriarcato) - o un film, appunto, che tra una battuta e l'altra mette sul piatto tra leggera satira e ironia una realtà che più che rosa Barbie è nera pece.
Il film di Barbie, infatti, neanche troppo a sorpresa, visto che la regista è Greta Gerwig (quella che ha realizzato quei piccoli capolavori di “Lady Bird” e “Piccole donne” per intenderci), affianca al racconto del mondo rosa stereotipato che tutti conosciamo una critica per niente velata al confronto infelice con la realtà: se a BarbieLand le donne possono essere tutto, nel mondo reale è il contrario e sono gli uomini ad avere la strada spianata per poter essere tutto.
Alla faccia della locandina, dove si legge: «Lei può essere tutto ciò che vuole. Lui è solo Ken».
E insomma: tra una borsetta fucsia e un paio di rollerblade fluo i veri protagonisti sono il femminismo e il patriarcato. Ma funziona?
Barbie è un'icona del femminismo o del patriarcato?
La risposta non è semplice e non va semplificata: sul piatto della bilancia ci sono molte verità di cui alcune estremamente fastidiose.
Dalla sua, Barbie fin dalla nascita nel 1959 si è proposta come emblema di emancipazione femminile: è stata pur sempre la prima bambola a dare alle bambine l’idea di poter aspirare ad altro oltre alla maternità come fonte di realizzazione personale (non a caso dal 1959 a oggi ha intrapreso ben 156 carriere diverse, tutte con successo).
Per contro, però, la Barbie stereotipo incarnata da Margot Robbie è lo stesso simbolo di non inclusività e di canoni estetici irraggiungibili che purtroppo attanagliano il mondo femminile e lo relegano a una continua rincorsa di approvazione e apprezzamento sociale guarda caso proprio in forza di una società patriarcale.
E nonostante negli anni quella prima Barbie nata da un'idea di Ruth Handler, moglie del patron Mattel, abbia cambiato forma, colori e proporzioni, proprio per diventare più inclusiva, l'idea che le donne per poter essere CEO debbano comunque essere anche mamme, mogli, cheerleader dei propri compagni, buone figlie, colleghe sempre disponibili e possibilmente entrare in una 42 e avere i capelli a posto stenta a perdere terreno.
Barbara Millicent Roberts (FYI, è questo il nome intero di Barbie) ha sempre voluto ispirare le bambine all'indipendenza, all'autorealizzazione personale e a una nuova idea di femminilità. Ma quando si pensa a una Barbie si pensa comunque a una sgnacchera stratosferica col punto vita di un ragazzino e le tette che guardano all'insù.
«Credevo fosse importante dare alle bambine autostima», ha raccontato Ruth parlando della sua creatura.
E ci è riuscita. Solo che era lei stessa figlia di una società patriarcale quando l'ha pensata e questo ha inesorabilmente condizionato la sua visione.
Il risultato insomma è un film che un po' incespica su questo punto - tanto che la voce narrante precisa che sentire Margot Robbie lamentare insicurezza per il suo aspetto fisico potrebbe risultare poco credibile.
Però è pur sempre un film, ed è un film molto ben fatto, che fa ridere, sorridere e anche riflettere.
E anche se la realtà che racconta una volta tolta la patina rosa che la edulcora è tutt'altro che risolta sia nel film che fuori, le quasi due ore di film dedicate a Barbie (e Ken - nato a tutti gli effetti come un accessorio di lei nel 1961, a cui Ruth Handler ha dato il nome del figlio Kenneth e Greta Gerwig il corpo di Ryan Gosling) volano con piacere e tante risate.
Non sarà un film a cambiare le sorti della società e men che meno a sradicare il patriarcato, ma perlomeno nel ricordarcelo ci ha deliziato con un sacco di rosa, di ricordi - e degli addominali scolpiti di Ryan Gosling.
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