Fotogallery Michele Riondino: «Mi date l’indirizzo della felicità?»
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Michele Riondino ha “rubato” Montalbano a Zingaretti (ed è diventato famoso quasi come lui), è al cinema con due film e Marco Bellocchio l’ha voluto per il suo prossimo lavoro. Contento? Non proprio. «Non riesco ad afferrare la gioia. E nemmeno l’amore...»
Michele Riondino ha “rubato” Montalbano a Zingaretti (ed è diventato famoso quasi come lui), è al cinema con due film e Marco Bellocchio l’ha voluto per il suo prossimo lavoro. Contento? Non proprio. «Non riesco ad afferrare la gioia. E nemmeno l’amore...».
Se sei cresciuto a Taranto, nel quartiere popolare Paolo VI, il tuo futuro è una linea dritta, quasi impossibile da correggere. Arriverà il giorno che infilerai la tuta da operaio, come hanno fatto tuo padre e tuo fratello maggiore, per entrare in quella fabbrica che da bambino hai sempre visto dal di fuori. A meno che l’odio non ti gonfi l’anima così tanto da darti il coraggio di scappare.
Michele Riondino il suo destino l’ha cambiato quando aveva 18 anni: «In quel periodo la mia passione per la recitazione era molto acerba. Non ero mai stato a teatro, ero come un ragazzino che sogna di diventare astronauta. La scelta di venire a Roma per tentare il provino all’Accademia di arte drammatica era dettata soprattutto dal bisogno di andare via da Taranto», racconta l’attore, 33 anni il prossimo 14 marzo.
«Non avevo alcuna preparazione per l’esame di ammissione, la mia ignoranza mi spaventava. C’era un’altra cosa, però, che mi ero portato dietro dalla Puglia: la caparbietà». Risultato: oggi Riondino è qualcosa di più di una giovane promessa. È il Giovane Montalbano, che il giovedì sera su RaiUno sfiora gli otto milioni di telespettatori. È al cinema con due film (nelle sale da venerdì scorso): la commedia Gli sfiorati e il noir Henry. È anche il protagonista (con Vittoria Puccini) di Acciaio, tratto dal bestseller di Silvia Avallone, che uscirà nei prossimi mesi.
Ed è sul set della nuova pellicola di Marco Bellocchio, Bella addormentata. «Michele Riondino è un grande interprete, perché non ha dimenticato da dove viene», dice il regista di Henry, Alessandro Piva. Capisco il senso di questa frase mentre parlo con l’attore tarantino nella Casa del cinema di Villa Borghese, durante un pomeriggio di sole e vento.
Con il passare degli anni, la lontananza dalla terra d’origine ha placato la sua rabbia e l’ha trasformata in amore: «La mia città non mi trasmette più insicurezza, ma la certezza del sostegno reciproco», dice. «Quella che una volta consideravo chiusura mentale, oggi la leggo come autodifesa. E l’ignoranza della mia gente non è inciviltà, ma mancata conoscenza: non si nasce sapendo tutto. Ho ritrovato un’alleanza affettiva con la mia terra».
Pugliese, ma romano d’adozione, interpretando il giovane commissario Montalbano lei ha cambiato ancora identità. Complimenti per il perfetto accento siciliano...
«È stato naturale imparare, oltre al dialetto, l’attitudine e il modo di fare dei siciliani. Ho avuto coinquilini che venivano da ogni parte dell’isola, da Messina ad Agrigento. La mia prima tournée teatrale è stata con Uno sguardo dal ponte, per la regia di Giuseppe Patroni Griffi, dove interpretavo Rodolfo, un siciliano emigrato in America. Ho lavorato per due anni con Emma Dante a Palermo, una città straordinaria, da cui mi sono lasciato inghiottire. E poi, siciliani e pugliesi sono simili: entrambi mantengono le distanze prima di accoglierti nel loro mondo. Invece, è stato più complicato capire lo spirito dei romani. Loro sono un po’ “fanatici”. Come sentenzia Alberto Sordi in Il marchese del grillo: “Mi dispiace, ma io so’ io e voi non siete un cazzo”».
Si è consultato con Andrea Camilleri durante le riprese?
«Lo scrittore è stato molto disponibile e non solo perché potevo chiamarlo ogni volta che volevo. Uno dei temi della serie è il rapporto problematico che Montalbano ha con suo padre. Nei racconti da cui è tratta la sceneggiatura, questo nodo non si risolve perché viene rimandato ai libri successivi. Ma per me e per Adriano Chiaramida, che interpreta il papà del commissario, una “soluzione” era necessaria: Camilleri ha compreso la nostra richiesta e ha inserito una scena, nella quinta puntata, per svelare il senso di questo rapporto».
Lei cerca sempre di dare un taglio personale al personaggio che interpreta?
«Deriva dalla mia esperienza teatrale con Emma Dante. Lei mi ha insegnato che cos’è la “cattiva educazione” sul palco: bisogna essere “scomodi” e mettere a disagio chi ti guarda. Sorprendere il pubblico per cercare lo scontro invece che l’approvazione. Per questo tento di piegare il personaggio alla mia visione. E ho la fortuna di trovare registi che mi ascoltano».
Che cos’hanno in comune Riondino e Montalbano?
«La difficoltà nel dialogare con gli altri. Ci sentiamo a nostro agio nella sfera professionale, ma siamo delle frane complete nei contatti umani. Quando dobbiamo corteggiare una donna, per esempio...».
Lei è timido?
«Sì. E così riservato che faccio fatica a parlare dei miei problemi anche con gli amici più stretti».
Il film “Henry” è una storia di droga e malavita. Per lei, cresciuto in un quartiere che negli Anni 80 era il centro del mercato dell’eroina nel Sud Italia, non si tratta di pura fiction…
«C’è un’immagine che non dimentico. Andando a scuola passavo davanti a una colonna su cui avevano scritto con lo spray “Viva la droga”. Una mattina da dietro la colonna sbucò un tossico con delle occhiaie viola. Ricordo che morii di paura».
Come si è tenuto lontano dai giri sbagliati?
«Non puoi evitarli. Ti ci ritrovi in mezzo e solo dopo capisci se sono buoni o cattivi. Ma poi entra il gioco il carattere: quello che diventi dipende dalle tue scelte».
Chi sono “Gli sfiorati” della commedia di Matteo Rovere?
«Come i non vedenti, costretti a sfiorare un oggetto per poterlo conoscere - ma questo non vuol dire afferrarlo - lo sfiorato è chi non afferra un sentimento, una passione, un amore. Devo ammettere che anch’io, nella mia vita privata, sono uno sfiorato. E sono pure masochista».
Davvero le piace farsi del male?
«Non caccio via il dolore, me lo porto addosso più del tempo necessario. Perché, quando qualcosa mi fa male, voglio sentirla fino in fondo».
E la felicità?
«Non riesco a gustarmela. Un altro al mio posto camminerebbe a mezzo metro da terra per la soddisfazione, io invece mi lascio condizionare da paure che sono spesso infondate».
È appena tornato dal set di Marco Bellocchio. La storia è ambientata nei giorni in cui si concludeva la vicenda di Eluana Englaro, rimasta per 17 anni in stato vegetativo. Qual è la sua opinione sulla morte assistita?
«Sono contro l’accanimento terapeutico».
Lei è religioso?
«Agnostico. Ma più passano gli anni più diminuiscono le possibilità che do a Dio di esistere. Comunque, ho una formazione cattolica: battesimo, comunione, cresima».
Quindi, niente matrimonio in chiesa?
«E forse nemmeno in comune... Certo, i miei genitori stanno insieme da più di 35 anni... Però i tempi cambiano. Adesso un matrimonio serve solo per avere delle agevolazioni e facilitarsi la vita con la burocrazia».
O lei è poco romantico o poco innamorato. La sua fidanzata non sarà contenta.
«Stiamo parlando di due cose diverse. L’amore prescinde dal “contratto”».
In “Acciaio”, insieme a lei e a Vittoria Puccini, il terzo protagonista è la fabbrica...
«In questo film ho fatto definitivamente pace con il mio passato. Ho odiato così tanto lo stabilimento Ilva di Taranto che l’avrei buttato giù. Entrare nell’acciaieria Lucchini di Piombino, dove è ambientata la storia, mi ha fatto vedere che, al suo interno, esiste una dimensione “sana”. Lì si rispetta l’ambiente, si controllano i fumi di scarico, si aprono le porte alla cittadinanza per insegnare che la fabbrica è utile al territorio e alla gente».
Porta sempre il cerchietto all’orecchio?
«Non lo tolgo quasi mai. Come Linus con la sua coperta...».
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