Fotogallery Richard Gere: «Odio la vanità»
...
Finché avrò questo vizio non potrò essere davvero felice», dice Richard Gere. Che, seguendo gli insegnamenti del suo amico Dalai Lama ha scoperto il segreto dell’amore eterno: «Bisogna cercarlo a 45 anni, come ho fatto io. Per certe cose ci vuole pazienza». Come per il ruolo che gli manca: «Vorrei fare un film muto. In fondo ho la migliore camminata di Hollywood...»
Finché avrò questo vizio non potrò essere davvero felice», dice Richard Gere . Che, seguendo gli insegnamenti del suo amico Dalai Lama ha scoperto il segreto dell’amore eterno: «Bisogna cercarlo a 45 anni, come ho fatto io. Per certe cose ci vuole pazienza». Come per il ruolo che gli manca: «Vorrei fare un film muto. In fondo ho la migliore camminata di Hollywood...».
I capelli color argento sono il suo marchio di fabbrica e, da un po’ di tempo, non li tinge più nemmeno nei film: Richard Gere è ancora un sex symbol a 62 anni. Uomo di gran fascino, attore sulla cresta dell’onda dal 1980, quando fece sognare le platee - soprattutto femminili - con American gigolo, icona di quegli anni (Ufficiale e gentiluomo), poi del decennio successivo (Pretty Woman), ha in curriculum anche il fatto di essere una delle prime celebrità globali “con coscienza sociale”, sempre pronto a battersi per le cause umanitarie.
Gere, infatti, non è solo un divo, ma anche il fondatore della “Tibet House” di New York, dedita alla conservazione della cultura e tradizione tibetana (è buddista praticante e amico del Dalai Lama), attivista per la lotta contro l’Aids e per la difesa dei valori di tribù nel Terzo mondo. Noi quando diciamo il suo nome pensiamo a Hollywood, ma è a New York che vive (con la moglie Carey Lowell e il figlio 12enne Homer), anche se - lo ammetterà anche in questa intervista - si sente più a suo agio a Lhasa, tra gli amici tibetani.
Quest’anno Richard Gere arriva al cinema con due film, The Double (nelle sale dal 9 marzo) e Arbitrage (prossimamente), in cui esibisce tutta la sottile seduzione del suo istrionismo. Nel primo, un thriller di spionaggio, interpreta un ex agente della Cia richiamato per occuparsi di un caso che lo aveva impegnato 30 anni prima: l’omicidio di un senatore americano per mano di un sicario russo.
Nel dramma Arbitrage Gere sarà, invece, Robert Miller, un magnate della finanza che, in seguito a cattivi affari e a un errore grossolano, si ritroverà sull’orlo del fallimento. Un film d’attualità, che, nonostante il personaggio che interpreta (un degno “parente” del Gordon Gekko di Michael Douglas in Wall Street), l’ha rilanciato come beniamino dei movimenti di protesta come “Occupy Wall Street”. Anche se, a dirla tutta, a noi Miller ha ricordato un altro ruolo che ha reso indimenticabile Richard Gere...
In “Arbitrage” riprende in qualche modo il suo personaggio di “Pretty Woman”, l’abile ed elegante giocatore dell’alta finanza. Venti anni dopo, sembra avere parecchi scheletri nell’armadio, non crede?
«Sì, ci sono delle somiglianze. Oggi non penso si possa trionfare in quel mondo senza ricorrere a qualche trucco. Come abbiamo visto, però, le mosse azzardate si pagano a caro prezzo. Il mio personaggio ha qualcosa di diabolico: è un esemplare tipico del jet set del XXI secolo che, tra pranzi di lavoro, aeroporti e impegni familiari, orchestra frodi che passano inosservate. Starebbe meglio in una tragedia shakespeariana che in una commedia romantica accanto a Julia Roberts».
Sia in “The Double” sia in “Arbitrage” lei esibisce movenze feline ed è molto atletico. C’è chi dice che abbia la migliore camminata di Hollywood...
«Dopo quella di Robert Mitchum! Vengo dal mondo dei musical e della danza, ho iniziato a esibirmi sapendo che bisogna mettere una certa enfasi sull’aspetto fisico della recitazione. Mi sono divertito molto a ballare e cantare in un film come Chicago e credo che potrei essere bravino anche in un film muto. Ho visto The Artist (che ha conquistato cinque Oscar, ndr) e invidio molto il protagonista Jean Dujardin».
Le è stato appena conferito il premio George Eastman per il suo contributo al cinema e alle cause umanitarie. Crede davvero che gli attori possano cambiare il mondo?
«Non del tutto. Il cinema è, prima di ogni altra cosa, intrattenimento. Però si può accennare a problemi di attualità anche con un dramma di suspense come Arbitrage. Il film è una critica pungente all’avidità di denaro e alla scarsa coscienza sociale del capitalismo e, in particolar modo, di parte del mondo finanziario. Appoggio con convinzione movimenti spontanei di protesta come “Occupy Wall Street”. I potenti, come il mio personaggio, non hanno idea di che cosa significhi essere disoccupato e non riuscire a trovare un lavoro».
Eppure, almeno nei film, lei appare sempre a suo agio nel lusso...
«Che il lusso appartenga al dna di certe persone, ormai viene dato per scontato, ma io non navigo nel lusso e, nel mio caso, credo che la fortuna sia bilanciata dalla spiritualità. L’agio materiale non mi soddisfa del tutto. Nemmeno New York lo fa. A volte mi sento più a casa in una piccola camera in Tibet... dico sul serio! Quando sto lì, magari con mia moglie e nostro figlio, mi sento completamente felice».
Perché?
«Perché i tibetani sono speciali, irradiano luce, letteralmente, e dunque gioia, la pura essenza della bellezza dell’esistenza in questa Terra. Se sono tra loro, o in compagnia del Dalai Lama, percepisco in pieno che sto vivendo come essere umano, il punto più alto del ciclo delle reincarnazioni. E benedico questa fortunatissima transizione con umiltà».
Lei è umile?
«Non come il Dalai Lama o altri monaci buddisti, che hanno raggiunto non solo la profonda consapevolezza della compassione e della tolleranza, ma anche la sua applicazione. Io non ci sono ancora arrivato, ma ci sto provando. Sono solo un attore di cinema, per ora. Niente di più».
Una superstar, vorrà dire. Non si considera tale?
«Solo nella misura in cui riesco a usare la mia visibilità pubblica per portare avanti cause che dovrebbero stare a cuore a tutti quanti. Non penso certo alla mia posizione in classifica nel mondo delle celebrità per ragioni personali o per vanità. Essere vanitosi è uno dei peggiori vizi. So di esserlo, in certi momenti, e quando me ne accorgo mi odio. Se mi sento così, so che non posso essere felice. Perciò cerco di spegnere la vanità sul nascere, prima che cresca dentro».
Lei e sua moglie Carey siete insieme ormai da 15 anni. Qual è il segreto di una relazione duratura?
«È banale se rispondo la comunicazione, l’affinità elettiva, l’essere amici oltre che amanti? È la verità. Se posso aggiungere qualcosa, dico che probabilmente fa anche bene aver vissuto tante relazioni, prima di coinvolgersi in quella che tu immagini - e senti - come definitiva. È una cosa che non puoi capire a 15, 20, forse nemmeno a 30 anni. Secondo me, 45 anni sono l’età giusta per l’amore eterno, non un minuto prima, e nemmeno tanto dopo. Quel sentimento richiede saggezza e tempo. Da giovani si va troppo in fretta. L’età ti insegna le ammalianti doti della lentezza».
A quali dei suoi oltre 50 film è più affezionato?
«Direi ai primi due, La rabbia giovane e I giorni del cielo, alla fine degli Anni 70, tutti e due scritti e diretti da Terrence Malick. Un ingresso nel mondo del cinema straordinario, magico, guidato da un artista di un’intelligenza e capacità di visione fuori dalla norma. Ogni tanto mi dispiace quando sento dire che il mio primo film è American gigolo. Fu il mio primo successo commerciale. Ma, dentro di me, so che il mio vero inizio è avvenuto con Malick, ovvero come attore di cinema d’autore. In fondo, mi sento ancora così».
© Riproduzione riservata