Da “pulce” a modello per Dolce e Gabbana, da bambino malato a numero uno al mondo dei calciatori. La vita di Lionel Messi sembra un romanzo. Non a caso i suoi punti di riferimento sono due: Maradona e García Márquez. Anzi tre: «La famiglia»

Se mi avessero chiesto qual era il personaggio che più desideravo intervistare in questo momento, avrei risposto, senza ombra di dubbio: Lionel Messi.
Non solo perché è un campione eccezionale (sfido qualsiasi persona che non ama il calcio a guardare la finale di Champions League il 28 maggio, in cui si incontreranno il Barcellona e il Manchester United: vedere giocare Messi è uno spettacolo straordinario, che va al di là della personale passione sportiva).
Ma anche perché ha una storia incredibile: intorno agli 11 anni, quando era già un piccolo talento, smette di crescere. Colpa di un ormone, la somatotropina. I suoi compagni diventano più alti, lui rimane “La Pulga”, una pulce, come lo chiamano ancora oggi. Il sogno di diventare un grande calciatore s’infrange. E la sua famiglia, che vive in una piccola città argentina, non può permettersi la costosissima iniezione giornaliera che potrebbe forse curare la malattia. Ma il direttore sportivo del Barcellona lo vede giocare. Rimane folgorato dalla sua classe. Lo porta in Spagna. Lui ha 13 anni. La sua vita diventa allenamenti e ospedale, allenamenti e ospedale...
Messi cresce un po’. E diventa quello che è: il più grande calciatore del mondo. Un campione (im)possibile. Intervistarlo era un sogno. E non avrei mai pensato di riuscirci grazie alla moda. Sì perché Messi adesso è anche diventato testimonial...
Per Dolce&Gabbana ha tolto scarpette e pantaloncini, trasformandosi in modello. È stato divertente? O impegnativo come fare gol da centrocampo?
«È più difficile stare davanti all’obiettivo di un fotografo di moda che giocare a calcio. Forse perché fare il modello non è proprio la mia specialità. Però è stato divertente posare per Dolce&Gabbana».
Un grande calciatore può diventare un’icona di stile. In tutte le occasioni ufficiali lei veste sempre Dolce&Gabbana. Perché li ha scelti?
«Amo gli abiti belli, amo l’immagine che trasmettono. Penso di essere fortunato a lavorare con brand prestigiosi come Dolce&Gabbana e Adidas, simboli di grande qualità e professionalità. Mi piacciono le cose che producono perché rispondono ai miei gusti. Credo che bisogna essere fashion senza perdere la propria personalità e senza dimenticare che la cosa più importante è sentirsi comodi, a proprio agio».
In una foto del servizio di moda che le hanno scattato, ha in mano “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez, premio Nobel per la letteratura. È un suo fan?
«Di solito non leggo tanto, ma Gabriel García Márquez è un punto di riferimento assoluto».
Da piccolo, Diego Maradona era il suo idolo. Oggi tutti dicono che lei è il “nuovo Maradona”. Che effetto le fa? Comincia a crederci un po’ anche lei?
«Maradona è unico. Incomparabile. Ma essere definito così da chi mi vuole bene è sempre un grande onore».
D’altronde Maradona dice che lei è il suo unico erede. Dopo aver vinto due palloni d’oro, ha ancora timore di prendere in mano il telefono per chiamarlo e ringraziarlo?
«A prescindere dai premi, gli sono grato per tutto quello che ha fatto per me». (E Lionel Messi dribbla la domanda...).
Di lei, “el pibe de oro” ha detto: «Vedere giocare Messi è meglio che fare sesso». Concorda? O preferisce il sesso?
(Ride) «Ah ah! Diciamo che mi piacciono entrambe le cose...».
Tra lei e il pallone c’è un rapporto speciale? Per chi la osserva giocare, è come se la palla fosse il prolungamento del suo corpo. Le sta attaccata come una calamita... Che magia è?
«Quando gioco a calcio, mi lascio portare da quello che sento dentro in quel momento. Non credo sia una magia».
Tutti sostengono che nel calcio di oggi conta sempre di più la potenza, la statura, la “massa”. Lei sovverte radicalmente questo principio. E realizza un sogno apparentemente impossibile: superare un muro di “uomini-armadio” e sfrecciare via. Dribblare, scavalcare, sgusciare, fare tante finte senza perdere mai il controllo. E fare gol. Lo ha imparato da piccolo, cercando di portare via la palla ai suoi fratelli più grandi? Come fa?
Ride di nuovo. «No, non c’è segreto. Il calcio è la mia passione. Lo amo da sempre. Quando ero piccolo, ogni volta che potevo, c’era una palla tra i miei piedi!».
Il suo primo contratto con il Barça fu firmato, si dice, su un tovagliolo di carta in una caffetteria di Rosario, la sua città. L’ha conservato?
«Il tovagliolo non esiste. Diciamo che sono cose che si raccontano per creare delle leggende» (e lui, effettivamente, è già una leggenda, ndr).
I primi tempi in Spagna sono stati difficili per lei: ogni giorno allenamenti e iniezione di ormoni in ospedale. Che cosa l’ha aiutata a tenere duro, a farcela?
«Soprattutto l’appoggio della mia famiglia, in ogni momento. E il desiderio di rincorrere un sogno».
Oggi è il più grande calciatore del mondo. Senza le cure, non ce l’avrebbe fatta. Dietro il suo successo c’è una storia di lotta, di sofferenza. Il ricordo di questo periodo difficile è utile anche adesso? L’aiuta a non essere solo uno dei tanti calciatori “ricchi e viziati”?
«Alcune esperienze del passato mi permettono di lavorare meglio oggi, nel presente. Il fatto di aver lottato molto per arrivare fino a qui mi aiuta a tenere la testa a posto. La verità è che tento di rimanere me stesso sempre, in ogni situazione».
Ha fondato la LeoMessiFoundation che aiuta i bambini in difficoltà. Lo slogan della sua fondazione è: “Scegli di credere”. Che cosa significa per lei?
«Un giorno, dopo aver visitato un ospedale, ho capito il ruolo speciale che possono avere i personaggi pubblici. Mi sono reso conto che per questi bambini malati la presenza di un calciatore famoso può essere davvero un grande aiuto. Quando ti vedono, ti regalano il loro sorriso e provano un’allegria speciale che dà loro la forza di continuare a lottare. È come se, grazie a te, si sentissero in grado di guarire e di realizzare i loro sogni. Io ne so qualcosa: ce l’ho fatta, sono diventato un calciatore dopo aver lottato molto. E devo ancora lottare ogni giorno per rimanere al massimo livello. Vorrei mettere il mio successo a disposizione di chi ne ha più bisogno. Questo è il mio progetto. Perché ogni volta che aiuto un bambino malato a sentire che c’è speranza, mi emoziono. Per questo abbiamo deciso di creare una fondazione. Con lo stesso impegno, con la stessa forza, che metto nella mia professione di calciatore, continuerò a lottare per rendere più felici i bambini. È quello che ho scelto. Io ho scelto di credere».
La sua fondazione ha tanti progetti: qual è quello che le ha più toccato il cuore?
«Tutti i progetti della fondazione mi colpiscono. Li ho scelti con la mia famiglia e ruotano intorno alla salute e all’educazione dei bambini. Stiamo organizzando, per esempio, una scuola di calcio a Rosario, nella mia città natale in Argentina. Abbiamo anche costruito un parco giochi nell’ospedale Vall de Hebrón a Barcellona. Lavoriamo nella lotta contro una malattia tropicale, il mal de chagas, e abbiamo stanziato delle borse di studio a favore dei medici argentini in modo che possano venire negli ospedali più all’avanguardia a Barcellona nella cura dei tumori infantili».
È sempre fidanzato (o ci lascia qualche speranza…)? Ha come progetto di vita una famiglia, dei figli?
(Silenzio).
Lionel Messi non risponde. In fondo “La Pulga” è sempre stato geloso della sua vita privata. Ma le nostre fonti dicono che non sia più fidanzato con Antonella Roccuzzo (una “normale” ragazza argentina, non una super-top: forse anche questo è il segno di un uomo che, nonostante il successo, vuole rimanere se stesso). C’è forse qualcuna che vuole farsi avanti?
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