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Grazia

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Lifestyle

Isabel Allende: «Una storia che conosco bene (purtroppo)»

Isabel Allende: «Una storia che conosco bene (purtroppo)»

foto di David Allegri David Allegri — 16 Gennaio 2012

Fotogallery Isabel Allende: «Una storia che conosco bene (purtroppo)»

  • Isabel Allende Isabel Allende
  • Isabel Allende Isabel Allende Isabel Allende nasce a Lima, in Perù, 2 agosto 1942.
  • Isabel Allende Isabel Allende Isabel Allende nasce a Lima, in Perù, 2 agosto 1942.
  • Isabel Allende Isabel Allende Isabel Allende nasce a Lima, in Perù, 2 agosto 1942.
  • Isabel Allende Isabel Allende Isabel Allende nasce a Lima, in Perù, 2 agosto 1942.
  • Isabel Allende Isabel Allende Isabel Allende nasce a Lima, in Perù, 2 agosto 1942.
  • Isabel Allende Isabel Allende Isabel Allende nasce a Lima, in Perù, 2 agosto 1942.
  • Isabel Allende Isabel Allende Isabel Allende nasce a Lima, in Perù, 2 agosto 1942.
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È quella che Isabel Allende racconta nell’ultimo romanzo, un noir sul mondo della droga. «Sì, perché i tre figli di mio marito hanno attraversato questo inferno»

È quella che Isabel Allende racconta nell’ultimo romanzo, un noir sul mondo della droga. «Sì, perché i tre figli di mio marito hanno attraversato questo inferno».

Che sto facendo alle tre del pomeriggio nella mia casa californiana di San Rafael? Traduco il mio ultimo libro Il quaderno di Maya (Feltrinelli, pag. 400, 20 euro) in inglese, però è un’eccezione, solitamente non lavoro di domenica. Oggi poi è il compleanno di mio figlio Nicolas e ho già finito di cucinare il suo piatto preferito, il charquican, ovvero carne di manzo con verdure, patate, zucche, mais».

Dopo 25 anni di vita americana, si sarà ambientata. Niente più nostalgia per il suo Cile?
«Il mio destino è di essere sempre straniera. Il mio patrigno era un diplomatico, ho cambiato spesso collegi, scuole e amici. Poi, a causa del golpe cileno, ho vissuto da rifugiata politica in Venezuela e ora vivo da immigrata in California. E quando torno in Cile, anche lì mi sento un poco straniera».

Il Quaderno di Maya è una sorta di noir contemporaneo: la protagonista ha problemi con droga e alcol, fugge dalla California per non avere guai con gli spacciatori. Quello della dipendenza dagli stupefacenti è un problema che lei conosce bene...
«I tre figli di mio marito sono stati drogati. Il maggiore, che ora ha 47 anni, ha trascorso una vita molto triste. Non ha mai trovato un lavoro fisso, è finito spesso in carcere; la figlia morì a 28 anni per lo stesso problema. Il più piccolo ha vissuto in strada, facendosi di eroina per dieci anni. Ho visto, insomma, le conseguenze della dipendenza, dalla fase iniziale alla morte, o invece alla possibilità di salvarsi».

Prima di sposarsi, suo marito le aveva detto a cosa sarebbe andata incontro?
«Sì, ma non avevo esperienza di tutto questo e pensai: risolveremo alla cilena, cioè con regole e amore. Fui ignorante, arrogante. I genitori sono quasi impotenti, la droga è ovunque...».

Questo romanzo, dunque, ha lo scopo di raccontare ai giovani, con un mezzo letterario, che la droga distrugge?
«È un libro per adulti che parla di giovani. Sono circondata da adolescenti in famiglia, soprattutto nipoti, che da tempo mi chiedevano di scrivere un libro che parlasse della loro generazione. Nei miei romanzi non ci sono messaggi, io scrivo una storia solo perché mi interessa e voglio esplorare a fondo un tema, e poi chi sono per dare messaggi?».

Che cosa pensa della depenalizzazione?
«Sono favorevole. Anziché in pallottole contro i narcotrafficanti, dovremmo investire nell’educazione dei giovani, nella riabilitazione attraverso sport, musica, cultura. Maya ce la fa perché è sana e grazie alle basi che i nonni le hanno dato».

Mi racconti dei suoi, di nonni...
«Quando avevo tre anni mio padre se ne andò e non lo rividi mai più. Mia madre tornò nella casa dei genitori e io mi legai tantissimo al nonno: era un basco severo, poco propenso a baci e carezze, ma mi diede sicurezza e solidità».

Scrive ancora tutti i giorni a sua madre 91enne?
«Ho casse piene delle nostre lettere, una per ogni anno. Lì dentro c’è la vita mia, quella di mia madre, la nostra. Ogni 12 mesi lei mi restituisce le lettere che le ho inviato. Le ho giurato che non pubblicherò nulla e ci siamo ripromesse di distruggerle quando una delle due morirà, ma non penso che lo farò. Quando lei non ci sarà più, potrò leggere una sua lettera ogni giorno per il resto della mia vita. E io continuerò a spedirle lettere, anche a un indirizzo inesistente, con la speranza magari che lei legga. Non so se esistono gli spiriti, di sicuro mi sento molto vicina a mia figlia Paula».

La figlia di 28 anni che ha perso nel 1992 e a cui ha dedicato il libro con lo stesso titolo.
«Ci sono foto di lei ovunque in questa casa, non passa giorno senza che io riceva una lettera di qualcuno che parla di lei. C’è una fondazione col suo nome, ogni volta che firmo un assegno per aiutare qualcuno, è Paula che firma. Sì, è qui con me. Non posso credere che con la morte una persona sparisca del tutto, qualcosa deve rimanere, magari sotto altre forme».

Suo marito, William Gordon, è avvocato e ora anche scrittore.
«Si è messo a competere con me... Arrivai qua con la valigia, per provare a stare con lui una settimana, divennero due e poi sei mesi. Quando ebbi bisogno del permesso di soggiorno, gli dissi che se voleva che rimanessi avrebbe dovuto sposarmi. Ma lui moriva di paura. Chiese di poterci riflettere un po’. “Bene, hai tempo sino a domani  a mezzogiorno per pensarci”, gli risposi. La valigia era pronta, ma alle 11,45 mi disse: “Ok, ci sposiamo”. La nostra storia dura da 25 anni, il fatto che anche lui sia diventato uno scrittore non è certo un problema».

Sicura? Nel confronto con lei è sconfitto in partenza...
«Ha sempre voluto scrivere. Quando lo conobbi e mi raccontò la meravigliosa storia della sua vita, gli chiesi di poterla narrare in un libro (Il piano infinito, Feltrinelli, ndr). Poi, quando ridusse i ritmi di lavoro, cominciò a scrivere romanzi polizieschi ambientati nella San Francisco degli anni 60. E gli riesce molto bene (La giara cinese è stato pubblicato in Italia un paio di anni fa da Kowalski, ndr)».

Non vorrei insistere: due scrittori sotto lo stesso tetto non sono troppi? Specie se uno dei due si chiama Allende...
«Viviamo sulla cima di una collina con una vista incantevole sulla baia di San Francisco, in una grande casa circondata da vecchi alberi di rovere. Io lavoro in una piccola casetta in fondo al giardino e devo stare rinchiusa in totale solitudine per molte ore di seguito. William invece è iperattivo, fa molte cose in poco tempo, esce, va in città. Gli racconto un po’ quello che sto scrivendo e lui fa lo stesso, ma non leggiamo l’uno il lavoro dell’altra, né ci correggiamo a vicenda. Per noi funziona bene così. Lui ancora non si è fatto un nome, però non soffre di invidia per me, è felice».

Normale che sia così, è suo marito...
«Crede davvero che sarebbe lo stesso se fossi sposata con un cileno o un italiano? Io penso proprio di no».

© Riproduzione riservata

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