Fotogallery Emily Watson: «La mia vita è cambiata con una telefonata»
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Alzi la cornetta e, dall’altra parte, c’è lui, Steven Spielberg. Che cosa fai a quel punto? «Dici: sì, eccomi, sono pronta!». Anche
un’attrice pluripremiata come Emily Watson è andata nel panico quando il re dei registi l’ha cercata. «Ero eccitatissima, mi
sembrava di volare». E pur di girare War horse, ha dimenticato di raccontargli un piccolo particolare: «Ho una paura matta dei cavalli...»
Alzi la cornetta e, dall’altra parte, c’è lui, Steven Spielberg. Che cosa fai a quel punto? «Dici: sì, eccomi, sono pronta!». Anche un’attrice pluripremiata come Emily Watson è andata nel panico quando il re dei registi l’ha cercata. «Ero eccitatissima, mi sembrava di volare». E pur di girare War horse, ha dimenticato di raccontargli un piccolo particolare: «Ho una paura matta dei cavalli...».
Giacca scura su pantaloni marroni, pochissimo trucco e una borsa etnica posata sulle ginocchia come un morbido scudo. Occhi azzurro-verdi, penetranti. Lo sguardo indagatorio, curioso e, per certi versi, disarmante. La voce vellutata, quasi un sussurro.
Intervistare Emily Watson, straordinaria protagonista di pellicole quali Le onde del destino di Lars von Trier, che nel 1996 le valse la prima nomination all’Oscar (la seconda fu nel 1998 per Hilary e Jackie di Anand Tucker), e Le ceneri di Angela di Alan Parker, è un’esperienza intensa.
E molto, molto piacevole. Londinese, 45 anni, sposata con l’attore Jack Waters e madre di due bambini, Juliet, 6 anni, e Dylan, 3, la Watson è considerata una delle migliori attrici del teatro e del cinema indipendente britannico. «Grazia» l’ha incontrata a Londra per parlare della “sua prima volta” con Steven Spielberg in War horse (nelle sale dal 17 febbraio), tratto dal romanzo di Michael Morpurgo.
Ambientato durante la Prima guerra mondiale, narra la storia di Albert, interpretato dal giovane Jeremy Irvine, e di Joey, il suo cavallo, venduto dal padre e inviato al fronte. Pur di ritrovarlo, Albert decide di arruolarsi. Emily Watson è Rose, la madre del ragazzo.
È vero che a Spielberg non si può dire di no?
«Nella carriera di un attore è un grande giorno quando squilla il telefono e scopri che dall’altra parte del filo c’è... lui! Così, quando la mia agente mi chiamò dicendomi che Spielberg stava pensando di girare un film basato su War horse e voleva incontrarmi, sapevo che la parte che avrei accettato - perché non c’erano dubbi che avrei risposto di sì a qualunque sua proposta - era quella della madre. L’unico personaggio femminile della storia. O meglio, l’unico della mia età».
Dove vi siete incontrati per la prima volta?
«Qui, al Claridge’s Hotel, per un tè. E nonostante io reciti da anni, ero eccitatissima. Mi sembrava di volare».
Vi conoscevate già?
«Non esattamente, ma una volta a Hollywood, durante un pranzo in occasione di un premio al quale partecipavamo entrambi, Spielberg mi vide e si avvicinò, mi strinse la mano e mi disse: “Well done”, ottimo lavoro. Ovviamente ne fui molto colpita e lusingata. Dieci anni dopo si è rifatto vivo. Con War horse».
Aveva letto il libro di Morpurgo da cui è tratto il film?
«Sì, ma soprattutto avevo visto lo straordinario spettacolo teatrale. Ero incinta di otto mesi e molto emotiva. Dopo dieci minuti, fui talmente sopraffatta da ciò che stava accadendo sulla scena che, in lacrime, confessai a mio marito che non ero sicura di poter restare fino alla fine. Credo sia impossibile rimanere impassibili davanti alla profondità del legame tra il ragazzo e il suo cavallo. Un sentimento puro. Per ritrovare il suo Joey, infatti, Albert è disposto a finire nell’inferno della Prima guerra mondiale. E a rischiare di morire per lui».
È vero che per lei la storia narrata dal film ha un significato particolare?
«Come molti in Europa, anche la mia famiglia venne coinvolta nella guerra. Mia nonna mi raccontò che, quando aveva 12 anni, suo fratello, che ne aveva 17, partì per il fronte e non fece più ritorno. Venne ferito e, prima di morire, mandò una lettera dall’ospedale ai genitori dicendo di non preoccuparsi. Per tutta la vita, lei custodì la lettera in un cassetto del comodino. Aveva 80 anni, ma nel raccontarmelo non smise di piangere. Come se la perdita del fratello fosse avvenuta il giorno prima».
Se non sbaglio, lei non è molto a suo agio con i cavalli…
«Sono nata e cresciuta a Londra e, nella scuola che frequentavo, c’era l’opportunità, due volte la settimana, di fare equitazione. Io andai a una lezione e mi ripromisi di non provarci mai più. Avevo paura dei cavalli, avevo sofferto il freddo, mi ero coperta di fango e avevo ricevuto ordini, impartiti urlando, da una donna estremamente aggressiva. Molto meglio andare a visitare gallerie d’arte e musei, l’alternativa che ci veniva offerta. Che fui ben felice di accettare».
Ma a Spielberg questo non lo ha detto...
«E chi l’avrebbe fatto?» (sorride). «Durante le riprese, anche se non ho completamente superato la mia paura, ho sviluppato un profondo rispetto per questi animali».
Tanto da farsi coinvolgere da Brooke, un’organizzazione che si occupa delle condizioni di vita dei cavalli e degli asini da lavoro.
«Dorothy Brooke la fondò nel 1934 proprio per salvaguardare i cavalli che, come Joey nel film, durante la Prima guerra mondiale avevano servito l’esercito inglese ed erano stati poi venduti».
Quando girò “Le onde del destino” di Lars von Trier, all’improvviso si trovò al centro dell’attenzione mediatica. Come lo è ora Jeremy Irvine, il giovane protagonista di “War horse”. Che consigli gli ha dato in proposito?
«A New York, durante il suo primo giorno davanti alla stampa, ha dovuto rispondere alle domande di ben 70 troupe televisive… Non credo che abbia bisogno d’altro! Jeremy è un ragazzo molto dolce, di grande talento, ma soprattutto con una grande integrità. E credo che non avrà problemi».
Che cosa intende per “grande integrità”?
«Jeremy aveva paura, ma aveva anche molta voglia di imparare perché la sua ambizione è diventare un vero professionista. E al contrario di altri giovani attori con cui ho lavorato, non è uno che prima di ogni scena deve controllare la propria immagine allo specchio. Né sogna le prime pagine delle riviste di moda o di gossip».
Si ricorda il primo consiglio che le venne dato?
«Certo, perché fu importantissimo. Fu durante le riprese di Le onde del destino. Ero terrorizzata, non sapevo che cosa fare, come reagire, come comportarmi. Così Stellan Skarsgård, attore che stimo molto, mi disse: “Rilassati. Lasciati andare. E, soprattutto, lascia andare”. Un consiglio prezioso, anche nella vita».
È vero che ha detto di no a due grandi film, “Elizabeth” e “Il favoloso mondo di Amélie”?
«Sì, ed è stato per due ottime ragioni. Elizabeth sarebbe venuto a sovrapporsi a Hilary e Jackie di Anand Tucker, ovvero a un ruolo che a me sembrava più interessante, irrinunciabile. Per Amélie, invece, il motivo è stato la mia totale ignoranza del francese. Poco tempo prima che mi venisse proposto, avevo visto Juliette Binoche, che per me è come una dea, recitare in Cime tempestose. In inglese. E, sinceramente, era imbarazzante... Come lo sarei stata io se avessi accettato di essere Amélie».
“Hilary e Jackie” meglio di “Elizabeth”: che cosa cerca in un ruolo?
«Come madre di due bambini di 6 e 3 anni, cerco vacanze scolastiche e la possibilità di portarmi dietro la nanny» (ride).
Alla prima di “War horse” ha incontrato il principe William e Kate Middleton...
«...E abbiamo seguito regole precise. La prima volta che ci siamo rivolti a loro, abbiamo dovuto usare “Sua altezza reale”. Poi “Sir” per William, mentre per Kate siamo passati a “Ma’am” (Madame, ndr). Pronunciato in modo che faccia rima con “jam” e non con “farm”» (ride). «Sono affascinanti e di grande charme. Ma non sono esattamente una fan della famiglia reale».
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