Fotogallery Il fenomeno Cani: intervista a Niccolò Contessa
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Intervista a Niccolò Contessa: musica, arte e non solo
I Cani fanno veramente paura, ma in senso buono. Sono una conferma, il loro live è cresciuto, maturato, ha un suono potente, una regia, e fila liscio lasciando il segno, esci dal concerto senza voce e sentendoti anche con qualche anno in meno addosso. Abbiamo intervistato per voi Niccolò Contessa e abbiamo parlato del live, del nuovo disco e degli One Direction.
Vorrei iniziare parlando del concerto del 12 Dicembre a Milano: chi ti aveva già seguito live nel primo tour si sarà, come me, reso conto della differenza. Il cambiamento più evidente è che mostri la faccia, sei molto più a tuo agio sul palco, hai cambiato band e il concerto ha una sua regia, sembra un racconto con un inizio e una fine. Tu percepisci un’evoluzione e, se sì, in che senso?
Sì, credo che siano vere tutte le cose che dici. In un certo senso è molto naturale: quando abbiamo iniziato non avevamo grandissima confidenza con il palco, e non avevamo nemmeno le idee troppo chiare su come far suonare al meglio le canzoni dell’album. Questa volta abbiamo dalla nostra tutta l’esperienza accumulata durante il primo tour, e sono contento di sapere che l’impegno che abbiamo messo nel preparare il live abbia prodotto gli effetti che speravamo.
C’è chi ha scritto su facebook dopo il tuo concerto: «Guardi il pubblico al loro concerto, e capisci che i Cani sono una delle cose migliori successe alla scena musicale italiana degli ultimi anni». Ti ha sorpreso la risposta positiva del pubblico durante i live? Cosa vedi quando guardi il tuo pubblico?
In realtà sto quasi sempre con gli occhi chiusi, durante il concerto, quindi non è che veda molto! Più che vederla, la risposta del pubblico la sento, e chiaramente fa molto piacere. Mi colpisce sentire che tantissima parte del pubblico conosce a memoria le canzoni del nuovo album, uscito da poche settimane, e che anche un pezzo come Asperger, contenuto in uno split pubblicato unicamente in vinile, è conosciuto e apprezzato.
Mi hanno colpito molto i visual che hai scelto, diversi per ogni canzone. Vediamo apparire di tutto: cartelli No signal, Qr Code impazziti, Jay-Z e addirittura la scritta follow us on che si accompagna non solo ai loghi dei social network ma anche a quelli dei brand più noti. Com’è nata l’idea?
Osservando i visual di alcuni gruppi che ho apprezzato molto, anche band molto grosse come i Tame Impala o i Phoenix. Mi hanno colpito tutti i concerti in cui ho visto che c’era un aspetto visivo molto chiaro ed efficace: quindi ho provato ad applicare una singola idea per ogni brano e costruire, come notavi anche tu, una sorta di “narrazione” in cui si parte da elementi semplicissimi come dei flash di colore, per arrivare a delle immagini più strutturate.
Ascoltando le canzoni dei due album in versione live e in una scaletta che le mischia insieme ci si rende conto che i due lavori non sono così lontani, che fra i due c’è una forte continuità. È come se nel primo avessi voluto guardare attorno a te e nel secondo invece avessi spostato lo sguardo dentro di te, sembra che il secondo album sia un racconto dell’effetto che il primo ha avuto sulla tua vita. L’hai cercato?
Sì, sicuramente nel secondo disco ho rivolto lo sguardo più all’interno che all’esterno. Ero soprattutto preoccupato che, ripetendo i temi e le scelte del primo album, avrei finito per suonare un po’ forzato, un po’ “di maniera”. Poi in realtà gli elementi di continuità ci sono, e sono parecchi, però credo che siamo riusciti a trovare un buon equilibrio anche nei concerti.
Come hai vissuto questo periodo di pausa fra il primo e il secondo disco? Come hai metabolizzato quello che è successo dopo Il sorprendente album d'esordio de I Cani e come questo ha influito su di te, sul tuo modo di fare musica e sul tuo modo di vedere la scena musicale?
Ho cercato di “staccare” il più possibile dalla scena musicale: abbiamo smesso di fare concerti, interviste, ospitate, etc. Credo che sia positivo tenersi leggermente al di fuori delle scene, perché altrimenti c’è il rischio di iniziare ad avere delle prospettive troppo ristrette, specialmente in una realtà piccola come quella della musica indipendente italiana.
Riesci a vivere di musica adesso?
I tempi in cui potevi pensare di “sistemarti” con un album o un tour sono lontanissimi. Diciamo che non ho l’esigenza di trovare altre fonti di reddito, nel brevissimo termine, ma ho già fatto, negli anni scorsi, lavori che con la musica non c’entravano niente, e sono perfettamente consapevole che è un’ipotesi da tenere sempre in considerazione.
Durante il concerto invece di Vasco Brondi hai citato (in «Velleità») gli One Direction? Cosa pensi di questo gruppo che è, vuoi o non vuoi, un grosso fenomeno mediatico e generazionale?
Penso che, in varie forme, le boy band esistano più o meno da quando esiste la musica pop, e non mi sembra che gli One Direction rappresentino un’evoluzione particolarmente sconvolgente, né in positivo né in negativo, di questo fenomeno. Chiaramente è musica che non mi comunica moltissimo, ma troverei strano il contrario!
In Storia di un impiegato dici «in corridoio mi blocco un attimo e ho paura, mi aggrappo al muro, grazie a Dio non mi ha visto nessuno, grazie a Dio non mi ha visto nessuno, ma in fondo è del tutto normale, dormi poco e mangi male». In questa frase si percepisce tutta la paura generazionale, la precarietà, la mancanza di obiettivi, sembra quasi l’inizio di un attacco di panico, il male di questi anni. Ti senti interprete di questo malessere?
Ho provato a raccontare delle cose che mi hanno toccato personalmente, e sono colpito dal fatto che altre persone ci si siano riconosciute. Non ho mai pensato «ora scrivo questa cosa perché ci sono sicuro che ci si riconosceranno tutti», perché quando si inizia a entrare in quell’ottica, nel 90% dei casi, si sbaglia clamorosamente.
In questo album ci sono due pezzi in cui ripeti per più volte la stessa frase, struttura che non avevi mai utilizzato nell’album precedente. In Corso Trieste e FBYC (citazione del pezzo dei fine before you came: «sfortuna») ripeti rispettivamente «l’unica vera nostalgia che ho» e «maledetta sfortuna». Volevi farli diventare dei mantra? O suonava semplicemente bene la ripetizione?
In realtà la ripetizione è sempre stato qualcosa che avrei voluto usare, ma nel disco precedente non ci sono riuscito perché nei pezzi c’erano già troppe parole! Stavolta invece sono riuscito a contenermi, almeno in alcuni brani, e usare meno parole.
In Come Vera Nabokov si sente la difficoltà di sopravvivere a una società sempre più individualista, è quasi una resa alla debolezza e al bisogno di avere qualcuno che lotti per noi. Mi parli di quel «qualcosa in più » che non sono solo gli esami e avere vent’anni?
Sono arrivato a un’età in cui non so più se sto ancora crescendo o se sto già invecchiando: in entrambi i casi, comunque, cambia il valore che uno assegna alle cose: alcune iniziano a contare di meno, altre iniziano a contare di più. È molto difficile da spiegare precisamente, per quello dico «fidati».
In questo disco c’è la collaborazione con i Gazebo Penguin, con i quali avevi già collaborato in «I Cani non sono i Pinguini non sono I Cani» e il disco termina con un ospite inaspettato: Matteo Bordone. Com’è nata l’idea di fargli cantare la ghost track?
Perché il personaggio dell’hipster invecchiato è nato da lui: abbiamo degli amici in comune e ci siamo conosciuti qualche mese fa. Una sera abbiamo iniziato a immaginarci, per scherzo, come sarebbero stati, da vecchi, i nostri contemporanei più modaioli e dopo qualche giorno ho scritto il testo di 2033. L’idea di farla cantare a Matteo è venuta spontaneamente.
Il live, come il disco, si chiude con Lexotan. Effettivamente questo pezzo ha qualcosa di liberatorio e appropriato per i finali. È solo un caso che si trovi sempre alla fine?
No, è alla fine esattamente per quel motivo. Mi piaceva l’idea che ci fosse un po’ di luce in fondo al tunnel.
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