L’attrice inglese, tra i protagonisti del Festival di Berlino, sul grande schermo sarà una reporter suicida, la mamma di un assassino e una ragazza in crisi prematrimoniale.
Tanti, nel mondo del cinema, si sono chiesti perché Rebecca Hall non abbia ricevuto la nomination all’Oscar: la sua interpretazione nel film Christine di Antonio Campos (per ora uscito solo in America) su Christine Chubbuck, la reporter americana che nel 1974 si suicidò in diretta tv, lascia senza fiato. L’attrice inglese, però, non sembra delusa.
Al Festival di Berlino, che dura fino al 19 febbraio, si è presentata con due film: The Dinner di Oven Moverman e Permission di Brian Crano. Il primo è un dramma di famiglia profondo e sconvolgente, il secondo è una commedia sentimentale con spunti che fanno discutere.
Due ruoli agli antipodi che sembrerebbero quasi impossibili a una donna sola. Ma Rebecca non è il tipo che ostenta la sua bravura. Lanciata nove anni fa da Woody Allen nel film Vicky Christina Barcelona, dove interpretava l’amica schiva di una spregiudicata Scarlett Johansson, più volte, durante l’intervista, quest’attrice altissima, sofisticata e chiusa a riccio sulla vita privata, affida le sue emozioni solo ai grandi occhi nocciola.
E spesso, quando le mie domande si fanno troppo personali, la sorprendo ad arrossire.

Figlia del regista teatrale Peter Hall, fondatore della Royal Shakespeare Company, e della cantante lirica Maria Ewing, Rebecca ha il piglio aristocratico di chi ha frequentato le migliori scuole britanniche ed è cresciuta tra gli intellettuali.
Ma io scopro il suo lato più appassionato mentre s’infervora a raccontarmi The Dinner, tratto dal romanzo La cena di Herman Koch (Neri Pozza) e interpretato anche da Richard Gere, Steve Coogan e Laura Linney. Nel film due coppie di ricchi borghesi discutono al ristorante del crimine commesso, ma non ancora scoperto, dai rispettivi figli adolescenti. I giovani hanno ucciso una senzatetto. Che cosa fare? Mettere tutto a tacere o consegnare gli assassini alla giustizia? Epilogo choc e tema scottante: lo stesso libro aveva, infatti, ispirato nel 2014 il regista Ivano Di Matteo per I nostri ragazzi.
«Quello di Moverman è un film molto coraggioso perché parla di temi contemporanei e scomodi come l’ipocrisia, l’egoismo, l’attaccamento ostinato ai privilegi, la mancanza di morale. Abbiamo un grande bisogno di storie così, capaci di raccontare il nostro presente», spiega Rebecca che un anno fa ha sposato l’attore Morgan Spector, dopo aver chiuso la relazione con il regista Sam Mendes, l’ex della collega Kate Winslet.
Che cosa, invece, l’ha spinta ad entrare nella disperazione di un personaggio come Christine Chubbuck, la reporter che si è uccisa in diretta televisiva?
«Quando ho letto la sceneggiatura sono rimasta sconvolta, pensavo che non ce l’avrei fatta a interpretare il ruolo. Poi mi sono immedesimata con passione nel dolore e nella fragilità di questa donna. Al di là del suicidio commesso davanti a milioni di telespettatori, di lei si sa pochissimo. Ho cercato di ricostruire la sua vita con estremo rispetto».
Passa con disinvoltura dai film leggeri ai drammi, ma per quale genere si sente più portata?
«Ho un debole per le storie difficili, forse perché sono cresciuta e mi sono formata in teatro e ho interpretato tante tragedie. Ma sono anche felicissima quando i registi mi offrono una commedia. Come Permission, che ho anche prodotto, e racconta una storia in cui tutti possono riconoscersi».
Vale a dire?
«La protagonista sta per sposare il suo primo amore (l’attore Dan Stevens, ndr) ma gli amici le suggeriscono di fare altre esperienze sentimentali prima di legarsi per tutta la vita a un uomo. Chiunque può trovarsi di fronte a una scelta del genere. Ho un bellissimo ricordo del set anche perché, come produttrice, ho dovuto trovare i finanziamenti, decidere le location e scritturare gli attori. Ho imparato tante cose nuove sul mio mestiere».
Con due genitori sotto i riflettori, per lei recitare è stato inevitabile?
«Non saprei dirle se è stata la mia famiglia a spingermi a fare l’attrice o se mi ha condizionata l’ambiente in cui sono cresciuta. Di sicuro i miei genitori mi hanno insegnato il valore della cultura, il gusto della sperimentazione e la curiosità. In alternativa avrei potuto fare la giornalista».

Le dispiace essere considerata un’attrice sofisticata, un po’ snob?
«Non posso farci niente. Per quanto mi sforzi, il mio accento british riemerge sempre e alimenta lo stereotipo dell’inglese un po’ rigida».
Lei vive tra Londra e New York, ma in che cosa si sente irrinunciabilmente inglese?
«Nell’umorismo asciutto tipico del mio Paese. Ma mi considero anche americana perché ho senso pratico e non sono affatto fredda con gli altri».
È facile farla ridere?
«Sì. Bastano uno scherzo o una battuta».
Mi tolga una curiosità: ha mai incontrato la Regina Elisabetta?
«Certo. Avevo 5 anni e Sua Maestà era venuta ad applaudire mia madre all’opera. Io, in abito blu e calzettoni bianchi, avevo ricevuto direttive ferree su come inchinarmi, che cosa dire, che cosa fare e soprattutto che cosa non fare. Al cospetto della Regina rimasi paralizzata dall’emozione. Mi considero una fan di Elisabetta».
È vero che ha lasciato la facoltà di Letteratura inglese a Cambridge dopo soli due anni?
«Sì, l’ho fatto. Volevo compiere un atto coraggioso, una specie di ribellione che mi aiutasse a definire me stessa. I miei non la presero bene».
Come reagì suo padre quando gli comunicò che voleva recitare?
«Mi chiese se ero proprio sicura. Visto che lo ero, mi ha insegnato a non aver paura del palcoscenico. E mi ha spiegato che lo spettacolo è un mondo popolato di pazzi. Lì per lì non ho capito, ma l’informazione mi è tornata utile in seguito».
E da sua madre che cosa pensa di aver imparato?
«La tenacia, la professionalità, il rigore. Da bambina ho assistito a tante prove, aspettando dietro le quinte uno dei miei genitori e scarabocchiando. Sono cresciuta in una famiglia straordinariamente creativa che non cambierei con nessun’altra. Anche se quando diventi adulto ti crei altre famiglie che includono amici e colleghi».
Mi hanno detto che appena entra in confidenza con qualcuno gli chiede del suo passato. Come mai?
«Tutti nascondono delle storie interessanti che possono essermi utili per il mio lavoro».
Che tipo di attrice intende essere?
«Una che interpreta donne problematiche, perfino sgradevoli. Hollywood ha difficoltà ad accettare questo tipo di personaggi, ma io voglio che la gente si faccia delle domande. Altrimenti il mio lavoro non serve».

Si considera una donna romantica?
«Lo sono molto. Sarebbe una perdita di tempo non esserlo, si sprecherebbero tante belle occasioni, non crede?».
Le piace la moda?
«Non sa quanto. La considero una delle massime forme di creatività. Cambiare abito sul set mi permette di esprimere me stessa. Mentre nella vita mi diverte studiare gli abbinamenti e gli accessori».
Qual è l’aspetto meno esaltante del suo lavoro?
«Sentirmi responsabile quando un mio film non va bene, o viene troppo criticato. Lo so, dovrei imparare a prendere le cose con più filosofia, il mio lavoro è pieno di alti e bassi».
La sua prossima sfida?
«Sto cercando un finanziamento per esordire nella regia di un cortometraggio. Noi donne abbiamo difficoltà a riconoscere le nostre capacità, non sappiamo dire a voce alta che possiamo farcela. Ho scritto tante sceneggiature, ma non ho mai trovato il coraggio di farle leggere a qualcuno. Ora ho deciso di mettermi alla prova».
Qual è la qualità di cui va più fiera?
«Non saprei. Dovrebbe chiedere agli altri se ho delle qualità. Invece i miei difetti li conosco benissimo, ma mi guardo bene dal rivelarglieli.
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