La famiglia, la malattia sconfitta e una nuova avventura in un film di fantascienza. Michael Douglas torna al cinema in Ant-Man and the Wasp. E a Grazia parla del superpotere che vorrebbe perché, ora che come divo ha vissuto mille vite, è il momento di pensare a se stesso.
Il colmo per un divo hollywoodiano che ha vinto due Oscar, tre Golden Globe ed è figlio di una leggenda vivente come il centenario Kirk Douglas, è sognare l’invisibilità. Ma è proprio quello che Michael Douglas mi confesserà tra un sorriso e un commento accigliato sulla politica. Incontro l’attore in una suite parigina, arriva puntuale scortato da un piccolo plotone di guardie del corpo. Sfoggia un look sportivo, con tanto di t-shirt bianca sotto la giacca e comode scarpe da ginnastica.
Il detective Curran sedotto da Sharon Stone in Basic Instinct e il memorabile Gordon Gekko di Wall Street nonché il sex symbol indiscusso per intere generazioni, oggi ha 73 anni e negli occhi la fierezza di chi ha superato un tumore annunciato in tv otto anni fa, quasi a volerlo condividere con il pubblico che lo ha sempre sostenuto nella sua lunga carriera. «Lo sconfiggerò», aveva detto convinto al David Letterman Show, durante un’intervista che continua a tornarmi in mente nel corso della nostra chiacchierata.
Dal 14 agosto Douglas sarà al cinema in Ant-Man and the Wasp in cui l’attore è il padre della supereroina The Wasp, interpretata da Evangeline Lilly. E sullo schermo lo troviamo impegnato in una ricerca più romantica che scientifica: rintracciare nei meandri della fisica quantistica sua moglie, scomparsa da decenni, che ha il volto e la grazia di Michelle Pfeiffer. «Quando me l’hanno detto ho reagito così: “Michelle? Wow!”. E ho adorato anche l’idea di mostrarci sullo schermo ringiovaniti di 30 anni».
Nella vita privata il divo è sposato da 18 anni con l’attrice Catherine Zeta Jones, di 25 anni più giovane. E non fa mistero che ora il suo vero desiderio sia godersi finalmente la sua famiglia, che si è allargata ulteriormente: Michael è, infatti, diventato da poco nonno di Lua, figlia del suo primogenito Cameron, avuto 40 anni fa con la produttruce Diandra Luker.
Che cosa immagina per il futuro dei suoi ragazzi?
«Semplice, saranno la nuova generazione di Douglas al cinema: io e papà Kirk abbiamo fatto circa 160 film in 85 anni, ora tocca a loro».
Sono decisi a seguire le vostre orme?
«Per ora sembra di sì: vogliono tutti diventare attori. A partire da Cameron che pure è stato via per anni». mentre lo dice, cambia espressione e abbassa lo sguardo. «Mio figlio è stato in prigione (per reati legati al traffico di sostanze stupefacenti, ndr), ma ora è tornato e sta lavorando sodo. Dylan Michael, che ha 17 anni, invece, si è appena diplomato e recita già benissimo, mentre Carys Zeta si allena come performer, cantante e pianista. Poi c’è mia nipote, attrice anche lei, Kelsey: insomma, ci sono già quattro Douglas pronti per voi».
Come reagiscono i suoi figli nel vedere il padre nei film di supereroi?
«Dylan aveva 15 anni al primo Ant-Man e, mentre studiavo il copione, mi ha detto: “Papà, ascoltami bene perché devo dirti una cosa molto importante: questo film ti aiuterà nella carriera”».
Lei sarà scoppiato a ridere, immagino.
«Ma sì, l’ho ringraziato senza dare troppo peso alla cosa. Lui insisteva: “Papà, ma ti rendi conto? Sei in un film di supereroi Marvel. Raggiungerai un nuovo pubblico. Speriamo solo che ti chiamino per il sequel».
E infatti ha portato fortuna: l’hanno voluta anche per Ant-Man & The Wasp.
«Ne sono stato felice: per attori della mia età questi film sono una bella opportunità. Quando non si ha più nulla da dimostrare o da dover ottenere, capisci che l’importante è passare bene il tempo con persone gradevoli. Il clan Marvel è senza dubbio piacevole e mi permette anche di avere una certa credibilità nella mia famiglia: non posso certo vedere insieme con i miei figli Basic Instinct».
Perché tutti, compresi i suoi figli, vanno pazzi per i supereroi?
«Perché sono modelli di valori nobili, come la lealtà, l’amicizia, il talento. Ci sono attori pazzeschi che vi recitano. Pensi a Robert Downey Jr, con cui ho lavorato anni fa: passava un periodo difficile ed è stato rilanciato con Iron Man. O lo stesso Paul Rudd di Ant-Man. All’inizio ero gelosissimo di lui, confesso».
Perché?
«Era il solo a cui fosse permesso scherzare, improvvisare, a me invece contavano le battute una per una. A me, capisce? Da non crederci. Per fortuna avevo sul set la mia figlia per finta, l’attrice Evangeline Lilly. Una perfetta supereroina, brava interprete, notevole atleta, che capisce pure di fisica quantistica. Io no».
Zero?
«Ancora meno: quando ho letto per la prima volta il copione, mi sono sentito un idiota. Non capivo nulla, non sapevo neanche chi diavolo fosse Captain America. Mi sono dovuto rivedere i film sui supereroi, ma nonostante questo ero molto teso sul set».

Come mai?
«Perché da produttore, prima che da attore, sono abituato a tenere tutto sotto controllo. In film del genere non puoi: c’è di mezzo così tanta tecnologia che finisci per girare la scena come ti dicono senza avere idea di che cosa si vedrà sullo schermo. Ho capito che nella vita c’è sempre da imparare».
Se le offrissero un superpotere, quale vorrebbe?
«L’invisibilità. E magari ogni tanto il superudito, per sentire, come una mosca, quando gli altri parlano di me. Infine la possibilità di evadere dal nostro periodo storico, di viaggiare nel tempo, ma per questo già esiste il cinema per fortuna».
Che cosa non le piace di ciò che viviamo oggi?
«Sono tempi deprimenti, arrabbiati e complicati. Il bello di fare cinema è poter fuggire dalle vicende politiche che ci tormentano. Io sono un democratico liberale, da quello che vedo non solo negli Stati Uniti, ma anche da voi in Italia, come in Grecia o in Austria, la situazione non è delle più rosee: stanno rimettendo in discussione tutti i valori della tolleranza che davamo per assodati dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il cinema oggi serve per evadere e per non angosciarci. E magari per sorridere: presto mi vedrete su Netflix nella serie comica The Kominski Method».
Non si sente troppo “piccolo” in tv?
«Tutti i grandi personaggi del cinema d’autore che amiamo li ritroviamo su Netflix, su Amazon o altrove. Anche mia moglie sta girando una nuova serie per Facebook. Ci sono ruoli e film che ho amato molto, per cui sono stato pagato poco o niente e ho lavorato da pazzi, tipo per Alla scoperta di Charlie. Sono storie importanti, ma stanno una settimana al cinema e poi spariscono per sempre. I film in streaming, invece, hanno lunga vita, con 130 milioni di iscritti che possono guardarli a ripetizione. E questa magia mi piace».
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