Bebe Vio: «Vinco sempre a modo mio»
Bebe Vio non è solo la campionessa paralimpica di scherma più famosa. Ma è anche un esempio unico di determinazione femminile, in pedana e fuori. A Grazia ha parlato della sua nuova vita da studentessa a Roma, del giorno in cui guiderà il Comitato Olimpico e del perché vivere oltre i limiti «È una figata»
Avete mai conosciuto qualcuno in grado di capovolgere, in pochi minuti, la vostra visione del mondo? Ecco, Bebe Vio è una delle rarissime persone in grado di farlo. «Chi ha il mio braccio sinistro?», chiede. Poi, mentre la musica è a palla, urla: «Mi puoi passare la gamba?». In pochi minuti l’uragano-Bebe distrugge un bel po’ di certezze (a me, al fotografo e a tutto il team che era con noi).
Come l’importanza che diamo alla differenza tra un corpo normale e uno bionico: la ragazza che ho qui davanti l’ha annullata con tale forza, da spingere gli altri a fare subito la stessa cosa. Oppure l’idea che la bellezza debba essere perfetta, senza cicatrici e disarmonie. Perché Bebe è, senza se, senza ma, bellissima.
«La mia vita è una figata», mi dice mentre chiede a Gaia, la cugina che l’ha accompagnata a fare il servizio, di mettere come sottofondo la sua playlist. «Sono una privilegiata: come tutti i disabili trovo sempre parcheggio, salto le code, non pago il cinema», mi dice ridendo. La campionessa paralimpica di scherma ti spiazza anche con l’ironia.
La prima volta che l’ho incontrata a casa sua a Mogliano Veneto, in provincia di Treviso, aveva 15 anni, 5.500 amici su Facebook (oggi ne ha più di mezzo milione e altrettanti follower su Instagram), le Paralimpiadi erano un sogno lontano e l’idea che un giorno avrebbe potuto fare una copertina su Grazia o un selfie con l’ex presidente americano Barack Obama non era neppure concepibile.
Ma era felice e piena di vita come lo è oggi, nonostante a 11 anni la meningite le abbia portato via braccia e gambe. Anche allora mi aveva parlato dell’associazione Art4sport, fondata dai suoi genitori per aiutare i bambini amputati a integrarsi nella società attraverso l’attività fisica.
Adesso Bebe si sta preparando all’evento più atteso dell’anno: il 14 giugno allo Stadio dei Marmi a Roma ci saranno i Giochi senza Barriere. Una grande festa di solidarietà nella sua nuova città.
Da gennaio è andata a vivere da sola a Roma e studia all’università John Cabot. Che effetto le fa?
«È molto figo. Vivo con due ragazze, una boliviana, Isabela, e una bulgara, Nadine. Ci sono continuamente feste negli appartamenti studenteschi. L’unico trauma è vedere Isabela mentre prepara la pasta: scalda l’acqua nel boiler del té, la mette in pentola e, senza accendere il fornello, aggiunge maccheroni, tabasco, soia se è finito il sale. Poi scola tutto e dice: “È pronta”, magari aggiunge un sugo avanzato e un chilo di parmigiano. Alla fine dice: “Manca qualcosa”, e aggiunge ketchup. Si impegna per preparare la cena e io mangio qualsiasi cosa: sono aperta a tutto».
Gli studenti sono tutti stranieri?
«Sì, anche i professori: è un’università americana. Nel mio corso per imparare a parlare in pubblico, per esempio, ci sono 15 studenti di dieci nazionalità diverse, dalla Grecia al Kazakistan».
Come mai frequenta questo corso? Lei è abituata a parlare davanti a platee molto vaste, avrà fatto decine di conferenze in giro per l’Italia.
«In realtà a scuola nessuno sa chi sono, gli italiani sono pochissimi. Mi sono presentata come Beatrice, non come Bebe e mi chiamano “B”. È strano, ma è anche bello tornare a presentarsi, perché nessuno ha pregiudizi su di me». Sottrarsi ai riflettori ogni tanto è rilassante? «Non sono una che stravede per il fatto che la gente mi riconosca e sappia tutto di me. A scuola sono molto naturale, come tutti gli altri. Non sanno neanche che pratico scherma. L’altro giorno sono tornata a casa alle dieci di sera, c’era una festa e ho lasciato il mio borsone in salotto. Un tipo americano si avvicina e dice: “Scusa, posso spostare la tua sacca da golf?” “Non ci sono sacche da golf”, rispondo. Poi capisco che intende la mia. Non racconto: “Sai, sono quella che a Rio ha vinto le Paralimpiadi”, anche se ora le mie coinquiline lo sanno».
Come lo hanno scoperto Isabela e Nadine?
«La sera in cui sono arrivata a Roma siamo uscite subito a cena. Un gruppo di ragazzi ci ha fermato chiedendomi una foto. “Vi conoscete?”, mi hanno chiesto le mie coinquiline. “Sì, siamo vecchi amici, era un sacco che non li vedevo”, rispondo. Poi arriva un’altra ragazza: “Ma conosci anche questa?”. Allora ho dovuto spiegare chi sono. E quando le ho citate in un post è successo un delirio, anche perché sono molto belle e i miei fan hanno iniziato a seguirle».
I suoi genitori sono felici della sua nuova vita a Roma?
«Sì, sono stati i primi a dirmi: “Vai, fai le tue esperienze. Se vuoi ottenere qualcosa, datti da fare da sola”. I miei sono persone fantastiche. A Roma mia madre ha tanti amici perché è nata lì. L’altro giorno me la sono trovata in casa senza preavviso. “Non entrare in camera mia”, le ho urlato. C’era un casino pazzesco e a Mogliano se lasciavo le cose in giro, si arrabbiava molto. “Sono già entrata, ma ho deciso che non mi interessa: questa è casa tua e la gestisci tu”. Ho molto apprezzato».
Cerca l’anonimato, ma si è fatta un nome che ormai tutti conoscono. Che effetto le fa?
«Sono felice, perché ho fatto tutto da sola. Ci ho lavorato duramente: nessuna conquista si ottiene senza fatica. Odio la gente che va avanti grazie al nome di un genitore famoso, per esempio. Ma se il nome te lo guadagni, è diverso».
Oltre alle medaglie d’oro che ha già vinto e quelle che vuole conquistare a Tokyo nel 2020, che cosa desidera ottenere ancora in futuro?
«Be’, vorrei fare il lavoro di Giovanni Malagò, anzi qualcosa di più. Cioè non solo il presidente del Coni (Comitato olimpico nazionale italiano), ma anche del Cip, il Comitato italiano paralimpico. L’altro giorno prima di passare da lui gli ho scritto un messaggio: “Sei nel mio ufficio? Mi stai scaldando la poltrona?”. “Sì, sì, vieni pure, che sto iniziando a sgomberare la scrivania”, ha risposto».
Ma il Coni non è un ambiente troppo maschilista?
«Direi di no. Anzi, i pregiudizi contro le donne sono meno acuti perché nello sport abbiamo già fatto vedere quanto siamo forti».
Qual è secondo lei la strategia migliore per realizzare il potenziale femminile?
«Non crearsi alibi dicendo: “Non ci provo neppure perché sarei penalizzata come donna”. Oppure: “Il mio sogno sarebbe..., ma...”. Bisogna buttarsi. E basta. Avere il coraggio di dire ciò che si vuole fare, chiedendo aiuto per realizzarla. Vivo costantemente in qualche squadra: la famiglia, l’associazione, la Nazionale. Il segreto è questo: creare un team in modo che l’obiettivo non sia più del singolo, ma di tutti. La squadra non deve spingere avanti me, andiamo avanti insieme. Ecco perché la cosa più bella degli eventi sportivi non è l’urlo del vincitore, ma la commozione che leggi negli occhi di chi sta dietro, l’allenatore, il fisioterapista, i genitori. Ecco perché quando si parla di Art4sport odio che dicano: “L’associazione di Bebe”. Non è mia, io sono solo una dei tanti».
Che cosa succederà il 14 giugno nei vostri Giochi senza Barriere?
«Nell’associazione siamo 25 ragazzi. Insieme con personaggi comuni e famosi, ci divideremo in otto squadre e ci sfideremo in prove molto divertenti. Difficile da spiegare, bisogna venire a vederlo. Sarà allo Stadio dei Marmi dove a ogni statua, che ritrae uno sportivo, manca una gamba o un braccio: un luogo perfetto per noi».
Lei è una donna molto coraggiosa: ha affrontato nella sua vita prove molto difficili. Non ha mai paura?
«Sono piena di paure, ma non bisogna cercare di superarle. Ho imparato dalla scherma che la paura la puoi sfruttare a tuo favore, per riuscire a reagire alle situazioni. La devi trasformare, piuttosto che eliminare». Di che cosa ha timore adesso? «Di cose banali, come tutte le persone. Per esempio di incendiare casa perché rischio sempre di far esplodere le padelle. Oppure di cadere per strada a Roma e morire: in centro si cammina sui sampietrini, se scivolo e mi si stacca la gamba, finisco per terra».
Mi tolga una curiosità: fa la doccia da sola?
«Certo, anche venti volte al giorno quando mi alleno. Sarebbe un problema se non ci riuscissi. Ma non uso le protesi perché non possono prendere l’acqua. In realtà ho un trucco: indosso quelle che chiamo “le gambe ciabatte” che non si rovinano, inventate da mamma e papà. Mi lavo anche i capelli da sola: tutti pensano che sia difficile senza mani, invece no. Riesco perfino a truccarmi, anzi sono così brava che a casa mi occupo del make up di mia madre e di mia sorella Sole».
Ma suo fratello Nicolò e sua sorella Sole come vivono la sua notorietà?
«In modo tranquillo: non sono il tipo che fa pesare il fatto di essere diventata famosa. Anzi, sono la prima a spronare i miei fratelli. E a casa non si parla mai di quello che faccio io, ma di quello che fanno loro».
E suo padre Ruggero, che tipo di uomo è?
«Il “santo” della famiglia. È difficile litigare con lui. Quando vivevo a casa, non amava che uscissi la sera. Ora non può controllarmi, ma quando mi chiama dice: “Come mai hai la voce così stanca?”».
È una delle donne più solari che abbia mai conosciuto, lo sa? Ogni tanto piange?
«Certo, l’ultima volta mi è successo durante una partita della Nazionale di rugby, quando l’Italia ha perso. Mi scendono le lacrime solo negli eventi sportivi. Mia sorella, invece, che ha 17 anni, è la più romantica del mondo, una “innamorata dell’amore”. Quando vede due fidanzati dice: “Che belli. Vorrei anch’io”. A me di quelle cose lì non me ne frega niente. Se invece un atleta conquista un traguardo, piango».
Non è mai romantica davvero? Neppure quando un ragazzo che le piace la invita fuori?
«Be’, di questo non parlo nelle interviste: è la mia vita personale». Il servizio fotografico è quasi finito. Nike, la nostra stylist, le propone di indossare una maglia a righe.
«Mia nonna Marzia le metteva sempre, ne abbiamo una marea in casa. Devo assolutamente prenderne qualcuna».
Bebe chiude la sua valigia pronta per tornare a Roma. Guai a chiederle se ha bisogno di aiuto per portarla via: fa da sola. Per lei, davvero, non esistono limiti.
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