Milano Fashion Week: quanto è stata inclusiva la settimana della moda (e quanto c’è ancora da fare)?
Diversità e inclusione: una coppia di parole che è entrata nelle nostre vite senza troppe spiegazioni e con fin troppi fraintendimenti. Il motivo credo, sia uno solo: non se ne sa abbastanza e si finisce sempre per focalizzare la conversazione su tutto quello che non c’entra, quando l’unica cosa che ci sarebbe da dire è che la società in cui viviamo è stata costruita sulla base di privilegi, o se preferite, favoreggiamenti, che creano una serie infinita di ingiustizie.
È così da secoli ormai e quello che a noi resta da fare è scegliere tra ciò che è semplice - continuare com’è sempre stato fatto - e ciò che è giusto, ovvero sforzarsi di decostruire dalla nostra mente tutti quei meccanismi ormai interiorizzati per cui vedere una platea di persone tutte uguali per lo più bianche, o modelli con lo stesso fisico, ci sembra normale.
Questo vale anche e soprattutto per l’industria della moda, che forse più di tutte ha il potere di cambiare le cose, perché per quanto lo si dia per scontato, ci mostra volti, corpi, talenti e ci propone modelli da seguire, avendo così un’incredibile influenza che ha sul nostro immaginario.
A proposito di impatto, quello che hanno avuto su di me le sfilate della settimana scorsa è quello di un netto miglioramento. In passerella a Milano ora si vedono modelle di diverse etnie e più di una per collezione, esattamente come le loro colleghe bianche, e per quanto continuino a mancare corpi di taglie diverse, fatte le dovute eccezioni per Marco Rambaldi, Act N1 e Versace. Almeno sotto il primo punto di vista sembra stia passando il messaggio, che per quanto la realtà in cui siamo cresciuti ci abbia insegnato il contrario, non c’è nulla di normale nel selezionare volti tutti uguali e non è neanche rappresentativo della società in cui viviamo.
Inclusività e Fashion Week
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Sul lato inviti, liste e spettatori, che solitamente oltre a buyer e editor, includono anche influencer, è tutta un’altra storia. C’è da specificare che, per questa edizione della settimana della moda, c’erano ancora molte restrizioni; tuttavia rimane significativo come nel momento in cui bisogna ridurre i posti, i primi a saltare siano quelli dei creator appartenenti a minoranze. Questa edizione ce n'erano forse ancora meno di settembre dell’anno scorso, quando l’inclusione era davvero un argomento caldo. Il fattore più problematico rimane che, a capienza delle location ridotta a un terzo, questo numero non venga suddiviso equamente, ma, su quelle decine e poche centinaia di persone che si possono invitare, solo 5 o 6 sono non bianche.
Sarà forse che questi influencer non sono tutti sotto agenzia e perciò siano più difficili da trovare, eppure è proprio questo il punto: fare uno sforzo, se è ormai risaputo che certi talenti faticano a emergere, perché le nostre menti sono da sempre state allenate a vedere solo e soprattutto persone bianche come le più brillanti, è dovere dei professionisti dell’industria provare a dare una spinta a chi a parità di meriti e di lavoro, resta comunque lasciato un po’ in disparte. E non tutt’a un tratto dimenticarsene.
Chi invece ha continuato gli sforzi iniziati per rendere la fashion week di Milano più inclusiva è l’istituzione che la organizza, la Camera Nazionale della Moda, che in collaborazione con Afro Fashion Week Milano, quest’anno ha fatto aprire il calendario a cinque designer italiane di discendenza straniera. Judith Saint Jerman, di origine haitiana, Sheetal Shah, di origine indiana, Nyny Ryke di origine togolese, Romy Calzado di origine cubana e Zineb Hazim, di origine marocchina, sono le protagoniste della seconda edizione di We Are Made Italy, il progetto ideato da Afro Fashion Week per aiutare giovani designer italiani di origine straniera a emergere.
Quest’anno i “Fab 5” - così vengono anche chiamati - selezionati sono tutte donne, perché come detto in conferenza stampa da Michelle Ngonmo, nonché founder e CEO di Afro Fashion Week Milano, nell'industria della moda italiana esiste anche una grande disparità di genere. Le loro collezioni, tutte realizzate con tessuti riciclati o sostenibili, sono una bellissima fusione tra due mondi: quello in cui vivono e dove sono diventati designer e le loro origini.
Le designer dell’Afro Fashion Week
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Un ultimo, ma non meno importante "precedente" che è stato creato la settimana scorsa è ad opera di Gucci. L’inaugurazione online e fisica - anche se per una sola giornata - di Gucci Vault lancia tutti i messaggi giusti. Vault è il nome del nuovo spazio che il brand ha pensato per promuovere i lavori di designer emergenti, sfatando quel falso mito, secondo cui nelle industrie creative non c’è abbastanza spazio per tutti e sostituendo alla paura della concorrenza, un nuovo senso di collaborazione, che va al di là della mera esposizione e prevede compensi per i lavori esposti. Un grande passo decisamente in avanti e che si stacca nettamente da tutto ciò, che solitamente soffoca i giovani designer.
Sono proprio iniziative come quella della Camera della Moda e di Gucci che fanno pensare che il meglio deve ancora venire. Perché è vero, di errori ne sono stati commessi molti, ma, oltre a chi ormai è abituato a vedere tutto andare in un solo modo e pensa che certe richieste siano solo un trend di passaggio, per fortuna c'è anche chi crede sia necessario sforzarsi per uscirne meglio di prima.
Sarò ripetitiva ma credo che serva parlare di più dell’argomento perché non viviamo in una società che ci ha insegnato cosa significa essere inclusivi, eppure in un sistema come quello della moda è estremamente importante, perché non si possono promuovere solo ed esclusivamente determinati modelli come se gli altri non esistessero o non fossero degni di considerazione.
E per quanto richieda uno sforzo, va fatto se vogliamo veramente staccarci da certe dinamiche arcaiche di stampo razzista e rendere il sistema moda più giusto.
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