Egoista, vanitoso, sempre pronto a cambiare direzione per seguire quello che più gli piace. Matthew McConaughey parla a Grazia di quando ha capito che i suoi punti deboli erano delle qualità. Che ora ha trasmesso al super cattivo vestito di nero che interpreta al cinema.
Un giaguaro. Se potessi reincarnarmi, vorrei essere un giaguaro, un animale che ho incontrato spesso nei miei sogni».
Ogni volta che incontro Matthew McConaughey so che, prima o poi, risponderà a una mia domanda portandomi lontano: tra qualche tribù africana, magari in Sudamerica, sicuramente nei suoi sogni. Stavolta finiamo a parlare, non so nemmeno come, della sua prossima vita. Che lui immagina, ovviamente, selvatica e affascinante come l’animale in cui pensa di reincarnarsi.
In realtà la deriva esoterica della nostra intervista è giustificata dal suo ultimo ruolo nel film La Torre Nera (nelle sale dal 10 agosto), ispirato alla saga di romanzi di fantascienza di Stephen King pubblicati da Sperling & Kupfer, in cui l’attore texano interpreta una sorta di cowboy- stregone conosciuto come l’Uomo in Nero.
In questo mondo lontano da una parte c’è il “pistolero buono”, interpretato da Idris Elba, che cerca la fantomatica Torre Nera per evitare la distruzione dell’universo, dall’altra c’è proprio McConaughey, capace di mille magie e di frasi da vero cattivo, come il tormentone: «La morte vince sempre».

Adesso, invece, ho davanti il sorridente attore premio Oscar (vinto nel 2014 per Dallas Buyers Club), finalmente a riposo dopo aver terminato le riprese del drammatico White Boy Rick e The Beach Bum, del dissacrante regista Harmony Korine. McConaughey sorseggia quella che mi dice essere la sua nuova bevanda preferita: Kombucha, cioè il tè fermentato molto in voga tra i salutisti.
Quarantasette anni, sposato con la modella brasiliana Camila Alves, padre di tre bambini (Levi, 9 anni, Vida, 7, e Livingston, 4), sembra aver intrapreso la strada ormai segnata per le grandi star di Hollywood: una statuetta, una serie tv di successo,True Detective, e ora una promettente saga come La Torre Nera.
Com’è questo film? È uno dei titoli più attesi dell’anno.
«Non ho ancora visto il montaggio finale, ma posso dire che ci siamo divertiti un mondo a girarlo. Nikolaj Arcel, il regista, mi ha detto che Stephen King, dopo averlo visto, gli ha scritto un messaggio: “Non è proprio come il mio romanzo, ma ne avete colto lo spirito e il tono”. In effetti, l’atmosfera ricorda moltissimo quella dei suoi libri».

Il film è una storia epica ambientata in un mondo immaginario. Qual è stata, invece, la sua più grande avventura?
«Sicuramente quella che ho vissuto quando sono andato in Africa, da solo, usando un altro nome e fingendomi un pugile scrittore. La cosa più bella è che nessuno s’interessava troppo al ruolo di scrittore, ma tutti mi chiedevano della boxe».
Perché è stato un viaggio così bello?
«Sono finito in un villaggio a 100 chilometri dalla prima cittadina dotata di luce elettrica. Era un altro mondo. Lì sono stato sfidato a lottare da due giovani guerrieri, finché non è arrivato il vero campione locale: prima mi ha affrontato, poi, il giorno dopo, mi ha accompagnato a piedi per 20 chilometri, tenendomi la mano, fino al villaggio successivo. Era il suo modo di mostrarmi rispetto. E quando sono tornato, cinque anni più tardi, ha fatto lo stesso».
In che Paese si trovava?
«Non lo dirò mai. Non ci sono tanti posti al mondo dove possa fingere di essere qualcun altro e farla franca».
Non le piace essere riconosciuto? Non le fa piacere che la gente, quando la vede, le chieda: “Posso fare una foto con un premio Oscar?”.
«Be’, in effetti sono stato chiamato in modi peggiori».

Se non è la fama, che cosa la muove?
«Non resisto a ciò che mi appassiona. Per me non esistono mai piani prestabiliti, faccio quello che mi piace. È come se la mia testa mi dicesse: “Insegui una bella storia, trasformati, lasciati trasportare”. Altre volte è come se sentissi che nessuno potrebbe interpretare un personaggio meglio di me, come nel caso dell’Uomo in Nero».
Lei è vanitoso?
«Sono più un testardo, ma forse non è nemmeno un difetto. Insomma, crediamo che le nostre caratteristiche siano negative, invece non è sempre così. Certe volte sono egoista, è vero, ma ogni tanto credo sia salutare esserlo. E anche la vanità, alla fine, mi ha portato risultati più positivi rispetto a una vita di falsa modestia. Dobbiamo finirla di giudicare debolezze le nostre risorse».
Lei che è così saggio ha già fatto un bilancio della sua vita? Che cosa le manca?
«L’ho fatto letteralmente e nemmeno me ne ricordavo. Nel 1990 ho scritto una lista di 10 obiettivi da raggiungere, poi l’ho dimenticata. Quando me la sono ritrovata tra le mani, ho scoperto che li avevo realizzati tutti. Compreso quello di visitare un posto che continuavo a vedere nei miei sogni. Era in Africa!».
E ora ha fatto una nuova lista?
«Sì, mi pare ci siano solo otto cose al momento. Ma riguardano quasi tutte l’essere padre e marito, la mia salute spirituale, l’amicizia, la carriera. Molto dipenderà più da come cresceranno i miei figli che da me».

Sua moglie, Camila, l’aiuta nella carriera?
«Moltissimo. Se c’è una storia che mi attrae, come prima cosa la racconto a lei, o le leggo qualcosa dal copione. Se la vedo sedotta, dico ok. Se, invece, mi risponde: “Carino”, capisco che è meglio lasciar perdere».
E i suoi figli?
«A volte metto alla prova anche loro. Se un bambino di otto anni non capisce quello che stai dicendo, non lo comprenderà nemmeno il pubblico in sala. Certo, spesso mi propongono solo film da adulti e devo edulcorare qualche concetto qua e là».
Con tre figli, lei e sua moglie riuscite ancora ad avere una vita romantica e, chessò, a uscire la sera?
«La verità è che l’appuntamento romantico perfetto, per me e Camila, non è in qualche locale di moda, ma in casa. Usciamo a cena al massimo una volta ogni tre mesi: le nostre serate migliori le abbiamo passate insieme senza andare da nessuna parte».
E chi cucina?
«Io. Arrostisco le bistecche sul barbecue in giardino e mangiamo all’aperto, bevendo Amarone, mentre i ragazzi giocano sull’erba».
Tutto questo, a parte il vino italiano, sembra molto texano.
«Un po’ lo è. Di noi dicono che siamo un mondo a parte e in fondo è vero. Inoltre mia moglie è sudamericana e anche nella sua cultura il senso della famiglia è molto forte. È proprio vero, come ho letto da qualche parte, che più ti sposti a Sud, più trovi gente appassionata e generosa».
Che cosa le ha insegnato sua moglie?
«Ad avere pazienza e a rispettare di più la natura. Anche se l’usanza latina che prenderei più volentieri è quella del pisolino dopo pranzo».
Ha problemi d’insonnia?
«No, però, quando non riesco ad addormentarmi, ho imparato che ci sono solo due strade: provarci ancora una volta oppure alzarti. Io spesso scelgo la seconda, prendo carta e penna e scrivo. Metto giù tutto quello che mi passa per la testa, faccio libere associazioni d’idee e la mattina dopo guardo se quel qualcosa ha senso. A chiunque me lo chieda, dico sempre che le due ore tra le 4:30 e le 6:30 sono le più importanti per me».
Era così creativo anche da ragazzo?
«No, faticavo a trovare la mia strada. Il mio primo vero film l’ho visto che avevo già 17 anni. La tv non era un’abitudine per i miei genitori. Ho fatto mille lavori: dal meccanico di barche all’inserviente sui campi da golf. Ricordo ancora quando dovevo svegliarmi all’alba per rastrellare le 77 buche di sabbia del campo».
I suoi genitori erano contenti della sua determinazione?
«Loro mi hanno insegnato soprattutto il rispetto, per me stesso e per gli altri. È una delle lezioni che sto cercando di trasmettere anche ai miei figli».
Suo padre era il suo eroe in famiglia?
«No, il vero mito era mio fratello Pat, che per me è sempre stato più forte di James Dean. Mi accompagnava in macchina ovunque e, quando dei compagni di scuola provarono a bullizzarmi, lui l’indomani li minacciò. Da piccolo sognavo di essere come lui».
Un altro dei sogni che tengono viva la luce negli occhi di Matthew.
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