Elisa Sednaoui: E così ho scoperto chi sono
Quando ELISA SEDNAOUI è arrivata dall’Egitto all’Italia, sognava solo di passare inosservata. Poi è diventata una famosa modella, ma nemmeno così si sentiva al suo posto. Finché ha deciso di battersi, come fa oggi con la sua fondazione, per tutti quei bambini bisognosi di opportunità che, in fondo, le ricordano tanto se stessa.
Per capire che cosa ha in mente Elisa Sednaoui bisogna entrare in un mondo in cui gli opposti si toccano, si parlano e poi si abbracciano. Dove tutto è apparentemente un contrasto continuo, a cominciare da lei. Elisa è una modella e attrice non ancora 30enne, ma ha fatto una scelta da vecchi magnati: ha creato una fondazione benefica a suo nome. È una ragazza abituata a posare per le maison più importanti, eppure gira in tuta e scarpe molto usate.
È una che vive a Londra e che qui a Milano è scesa in un hotel prestigioso, ma ieri era a Roma a capire come può occuparsi dei ragazzi delle periferie.
Dopo Jack, 3 anni, nato dal matrimonio con il collezionista Alexader Dellal, Elisa è incinta del suo secondo bambinoche nascerà in estate. La modella sorseggia tè verde, scacciando i capelli che le cadono in faccia a ogni movimento. Ha un’aria selvaggia, occhi verdi, voce potente. Molto minuta, sembra fortissima. È reduce dalla giornata che precede l’evento, sostenuto da Yoox Net-à-Porter Group, che si è tenuto il 28 marzo al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, per la raccolta fondi per il suo progetto Funtasia.
La fondazione di Elisa (che ha già aperto attività in Egitto e, in Italia, nel comune piemontese di Bra, in provincia di Cuneo. Grazie a una partnership con l’organizzazione umanitaria Save the Children anche a Roma, Bari e Torino, e in futuro a Milano, Genova e Sassari) sostiene lo sviluppo della creatività, dell’autostima con progetti dedicati alle fasce sociali più deboli.
Elisa, lei è ancora una ragazza, ma ha già una fondazione a suo nome, come chi, al termine della propria esistenza, tira le somme e capisce che è arrivato il momento di dare. Ha bruciato i tempi, perché?
«Fa tutto parte della mia storia. Sono nata da un padre egiziano e da una mamma italiana, a 14 anni ho iniziato a lavorare come modella. Mi sono trovata dentro a una vita che era mia solo in parte. Poi quattro anni fa è successo qualcosa. Ero incinta di sette mesi. Ero in Egitto e, per una serie di coincidenze, ho visto per la prima volta il mio Paese con occhi diversi. Ho conosciuto gente che lottava per un mondo più giusto, gente per cui la vita aveva un senso. In un istante mi sono detta: “C’è qualcosa che devo e posso fare anch’io per dare una mano?” . Ho capito che con molto poco avrei potuto aiutare tanto. Proprio in quei giorni il mio agente stava trattando una collaborazione importante. Lavoravo in un mondo, quello della moda, in cui potevo dire sì o no a cifre enormi. Con quella stessa cifra avrei potuto trasformare vite. Mi sono chiesta: “Aspetta un attimo: che cosa conta davvero?”».
Quanto ci ha messo a darsi una risposta?
«Pochissimo. Mi sono buttata, senza avere da parte milioni. Ho cominciato a lavorare sul mio progetto: creare programmi educativi e centri, gestiti interamente da noi o in partnership, per favorire la creatività, soprattutto quella dei bambini, che sono il futuro, l’unica speranza che abbiamo di cambiare le cose. Volevo lavorare sulla povertà educativa».
Il diritto alla creatività. La sua è un’intuizione che può sembrare un optional in un mondo dove c’è chi ha fame.
«Lo so. Ma accedere alle proprie risorse, capire quello che sai fare o puoi diventare, vuol dire costruire opportunità. Per te e per gli altri».
E la sua creatività, Elisa, dove la esercita?
«Probabilmente nel favorire quella degli altri. Nella costruzione della struttura di questa associazione e il progetto in sé, dei programmi educativi interdisciplinari Funtasia che portiamo avanti, unendo l’arte e il giardinaggio, la medicina olistica, la nutrizione e l’informatica. I miei genitori mi hanno raccontato che già da piccola organizzavo mostre nei paesini della campagna egiziana: raccoglievo i disegni degli altri bambini. E invitavo tutti a vederli. Credo che anche questo mio progetto, la fondazione, nasca da qui. Non è una cosa studiata, è un’urgenza, un istinto, il sogno di lavorare nel sociale che ho sempre coltivato».
Che cosa c’entra questo con la sua storia personale?
«Io so che cosa sia l’esclusione sociale. Sono arrivata in Italia dal Cairo a 5 anni ed ero diversa da tutti. Mi sono trovata a Milano, a scuola dalle suore orsoline e, benché le abbia amate, ho avuto grosse difficoltà a integrarmi. Avrei voluto essere come tutti, una qualunque. Anzi, no: volevo sparire».
Strategie di sopravvivenza?
«Ho dovuto imparare ad abbassare il volume, a tenere sotto controllo la mia personalità, il che un po’ ha leso l’abilità di prendere “rischi creativi”. Tutto quello che volevo era passare inosservata. Ci ho messo anni ad autorizzarmi a essere chi sono davvero».
Una ragazza che vuole sparire e che invece decide di fare la modella: c’è qualcosa che non quadra, Elisa.
«Infatti, i conti non tornano e non torneranno mai. Non sono riuscita a capire bene questa cosa, neanche con la psicoterapia. Come dicevo prima, ha anche a che vedere con la mia personale necessità di dover essere indipendente economicamente. So solo che avrei potuto iscrivermi all’università e mantenermi. E invece mi sono ritrovata a fare la modella a New York, chissà dove ho trovato il coraggio. Ho vissuto anni di conflitto, finché sono riuscita a conciliare le mie due anime. Mettendo una al servizio dell’altra. Non sono una ragazza ricca che fa beneficenza. Voglio lavorare sul campo, capire ciò che serve, vedere se e come i progetti funzionano. Penso che sia importante dare una ragione alla propria esistenza, anche perché credo in Dio o quello che è».
Che cosa intende con “o quello che è”?
«Non sono un’integralista, ognuno è libero di credere a quello che gli pare. Io penso che ci sia una cosa più grande di noi e la chiamo Dio, anche se per me non ha un genere, femminile o maschile. Sono stata cresciuta da cattolica: catechismo, comunione in Sant’Ambrogio a Milano, tutto come da copione. Poi, molti anni dopo, ho riletto il Vangelo e il messaggio di Gesù è stata una botta. Adesso so di essere cristiana, ma so anche di avere un cuore da sufista, perché quella spiritualità araba ambisce a non giudicare e ad accettare gli altri e la realtà per quello che sono».
La sua fondazione lavora anche sull’integrazione dei migranti. Un’urgenza, oggi.
«Se continuiamo a segregare gli svantaggiati, i problemi aumenteranno. E le incomprensioni, i conflitti, saranno sempre più radicali. L’integrazione è un tema enorme. Io, come tutti, con la mia fondazione tento di fare il mio piccolo pezzo, quello che posso»
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