Diversity e inclusion: a che punto siamo nella moda e nei backstage
Qualche mese fa scrivevamo che qualcosa stava cambiando: in questo momento di transizione molto delicato e importante dove le istanze di gruppi marginalizzati e di conseguenza sotto rappresentati cominciano a prendersi il giusto spazio per esprimere la proprie esistenze anche attraverso la moda, bisogna cominciare a distinguere con molta attenzione chi sta facendo un percorso e chi sta cavalcando l'onda.
Sarà sul lungo periodo che potremo avere una più ampia panoramica perché la condivisione di valori considerati diversity e inclusion se non si realizzano nella presenza di quote fattive nelle aziende, non è sostenibile né realistica al fine di ottenere un reale cambiamento.
Assistiamo costantemente a episodi di puro tokenism travestito da valore aggiunto. Ogni giorno nascono prodotti marketing, editoriali e brand che si fanno scudo della bandiera dell'inclusione con la mano sinistra mentre con la destra frenano qualsiasi meccanismo di cambiamento all'interno dei propri processi comunicativi e produttivi, cominciando dal problema principale, ovvero che la maggior parte degli individui che si occupano di questo tema sono spesso persone immerse nel privilegio e che non hanno la minima idea di cosa significhi essere marginalizzate, razzializzate, sessualizzate, dismesse, discriminate.
Ci sono brand fashion che sono plauditi come ai nuovi re del momento, paladini diversity e inclusion a partire dal proprio claim che lo esplicita. Basta un click sulle loro ultime sfilate per accorgersi che non vi è nessuna corrispondenza tra il dichiarato e il realizzato. Non bastano 4 modelle di etnie diverse su 50 uscite, tutte della stessa taglia campionario e nessuna che faccia minimamente immaginare come possa essere portato quell'abito da un corpo differente dal canone condiviso.
Le modelle non conformi allo standard della taglia 38 sono pochissime, sempre le stesse, sempre l'eccezione, sempre il dodo della situazione. Non c'è scelta non perché non esistono ma perché non c'è continuativa e costante richiesta nei casting.
Nel pensiero complesso che oggi dovrebbe accompagnare qualsiasi scelta che abbia una responsabilità sociale, e la moda nonostante le voglia rifuggire queste responsabilità le ha e molto ben definite, non è più possibile né accettabile che la comunicazione o il messaggio che si vuole passare, non sia valutato nella sua interezza e conseguenza.
Il tema della diversity e dell'inclusion, paradossalmente, non è per tutti i brand moda. Molti non sono in grado di accoglierlo e trasformarlo in una mission sociale. La maggior parte, come gli viene raccontato o sognano, lo intendono unicamente come un trend per fare cassa. La coerenza sta nelle scelte precise che si fanno come in quelle che non si fanno. Se un designer propone un certo tipo di modello di donna è una scelta e ha senso come hanno senso mille altre scelte. La differenza la fanno i fruitori, chi raccoglie e si identifica in quel tipo di canone. La differenza la si fa proponendo mille tipi di canoni.
Le cose stanno cambiando comunque perché lentamente il progresso e il processo di trasformazione avviene inesorabile e su più livelli.
Tra il 2021 e l'Haute Couture di gennaio 2022 si è visto in passerella qualcosa che non era stato ancora istituzionalizzato e che in qualche modo segnava un prima e un dopo. Ritrovare sulle passerelle di settembre 2022 la stessa rappresentazione di corpi perfettamente intercambiabili e uniformi è stato un passo indietro. Si è evidenziata una volta di più l'esistenza di un divario tra il dichiarare di voler sostenere valori di uguaglianza e progressismo e poi di fatto, l'incapacità (o la non volontà in alcuni casi) di riuscire a trasferirli nelle sfilate, nel mondo moda, nella filiera dei prototipi.
Le disparità tra i gruppi privilegiati e quelli marginalizzati non le aggiusta il mondo della moda ma se si vuole contare, fare la differenza e usare la propria voce per raccontare altro da ciò che ci è familiare, comodo o facile, serve allora una tenace coerenza a sostegno di una visione di insieme o, almeno, onestamente parziale.
Le scelte che si potranno fare saranno criticabili, discutibili, rispettabili o condivisibili ma dovranno essere scelte che nel medio e lungo periodo siano sostenibili in una direzione piuttosto che in un'altra. Questo ragionamento non ha nulla a che vedere con il concetto binario di giusto o sbagliato ma piuttosto con un concetto di rappresentazione del mondo che può essere realistica, ideale, immaginata, inventata senza la pretesa di essere il tutto mentre chi ha più spazio, perché di fatto è riconosciuto come autorità, dovrebbe redistribuirlo, ripensarlo con la consapevolezza di essere comunque una parte e non l'assoluto.
Sul fronte backstage vi possiamo dire che siamo in un'evidente fase di transizione con parecchie contraddizioni interne. Un esempio molto semplice: quando sono presenti persone nere che possiedono un tipo di capello che va rispettato e acconciato con specifica perizia, è necessario saperlo fare. In alcuni backstage è stato scelto un team di persone nere specializzate che sapevano gestire le chiome con gli strumenti adatti mentre in altri, i capelli venivano tirati e pettinati senza nessuna skill di training apposito.
Ci sarebbe molto e poco da argomentare allo stesso tempo a seconda del punto di vista col quale vogliamo affrontare il tema, non fosse che la maggior parte delle intenzioni dichiarate apertamente nella creazione dei look fossero quelle di mantenere l'unicità di ciascuna persona. Impossibile non rilevare il corto circuito sistematico che dichiara di voler abbracciare il valore della diversità e poi, nel concreto, cerca di uniformare l'individuo perché non è in grado di accoglierne e gestirne la differenza.
Chiudiamo con una domanda: noi che facciamo parte di questo mondo, che abbiamo costruito professionalità, legami e carriere quanto vogliamo essere parte della soluzione mettendoci in ascolto e non solo essere parte del problema?
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