L’inclusività nel linguaggio della moda: qualcosa sta cambiando
Valentino il 26 gennaio 2022, sotto la direzione creativa di Pier Paolo Piccioli e attraverso la sfilata “Anatomy of Couture”, ha scritto un capitolo importante nella rappresentazione cominciando a costruire abiti sui corpi e non il contrario. Vestiti come luoghi sontuosi e ospitali da abitare.
Parlare inclusivo nella moda non significa spuntare la casella “diversity & inclusion” nella to do list dei casting, dei comunicati stampa e delle sfilate. Ci sarà sempre qualcunə che lo farà, come ci sarà sempre qualcunə molto bravə a salire sul treno e trarne beneficio cosmetico ma non sarà questo terreno esausto di risorse a far germogliare le idee inclusive che attecchiscono, crescono e durano nel tempo.
Lo dimostra la leva italiana di designer ben radicata nel qui e ora per la loro stessa natura agile e contemporanea: Marco Rambaldi, Act N. 1, Cormio, Sansovino 6, Andrea Adamo, Stella Jean, Christian Boaro portano la loro riflessione sulle passerelle che risulta inclusiva perché nasce già così all’origine.
Da Blumarine per la FW 22-23 gli abiti li hanno indossati anche ragazze dai corpi non standardizzati dove per standard si intende la taglia 38 o 36 mutuata da una rigida idea del femminile consolidata e trasferita nel campionario come sulle riviste da ormai troppo tempo. Non smetterà certamente di esistere questo sistema da un giorno all’altro né sulle passerelle né negli showroom ma qualcosa si sta muovendo. Nel mondo moda qualcosa sta succedendo in modo lento, discontinuo e goffo, ma sta succedendo. In ambito retail ed e-commerce invece è già successo in qualche modo anche se l'offerta rimane comunque limitata e anche se, nella stragrande maggioranza dei casi quando si creano look book, si finisce sempre e comunque per proporre lo stesso canone.
I corpi di persone disabili o che appartengono a persone che si rispecchiano nei valori della comunità LGBTQIA+ cominciano ad avere - finalmente - uno spazio integrato e non sono solo il tocco esotico nelle line up.
La grassofobia, l’ageism, il razzismo, l'omotransfobia sono solo alcuni dei grandi tabù della società: la moda non è che una delle emanazioni più evidenti da "incolpare". Non può più però permettersi di vivere separata dalla realtà che non solo è fluida e complessa ma in costante evoluzione. Al sistema è sempre risultato digeribile il fenomeno non la prassi o la cosiddetta “normalizzazione” che ha pari significato negativo come la parola "tolleranza". Nonostante il discutibile côtè problematico di queste definizioni, il fatto che non ne siano ancora arrivate di migliori, dimostra tutto il lavoro sistemico che abbiamo da fare.
Il linguaggio inclusivo, che è prima di tutto pensiero complesso, non può limitarsi alla sola parte del palcoscenico visibile ma radicarsi sin dalle fondamenta, dietro le quinte, nei corridoi, negli uffici e nelle redazioni e in prima istanza, nelle persone.
Basta farsi una passeggiata nella selva, spesso oscura, dei commenti nel web o basta parlare di abiti e corpi in una conversazione qualunque per innescare immediatamente il desiderio di caricare le armi del giudizio e sparare le pallottole dritte sui bersagli. Una volta il bersaglio è Kim Kardashian, un'altra la faccia di Kirsten Davis, poi le gambe di Emma Marrone, la pancia di Johnny Depp e così via, in una costante quanto deleteria oggettificazione delle persone.
L’ultimo oggetto di questa pratica è stato (ed è ancora) l’outfit di Miu Miu diventato l’emblema della discussione sui corpi femminili e poi sui corpi in genere, perché è ancora sul femminile che continua a giocarsi la partita più cruenta.
Si sprecano fiumi di parole sull’inaccessibilità della moda e sulla sua presunta natura frivola ma sempre troppo poche sulla sua potente capacità di penetrare nel quotidiano e insediarsi nel nostro immaginario senza che ce ne rendiamo conto. Un'ottica riduttiva che non lascia spazio all’errore, alla sperimentazione, al tentativo, al rischio che sono i fattori che portano al progresso e non alla conservazione di un sistema involuto.
Di quanto ci sia bisogno che il reale e l’ideale, che non sono concetti assoluti e riducibili, trovino un punto di incontro lo ha dimostrato con molta chiarezza anche il successo dell'unione creatasi tra la popolare manifestazione di Sanremo e il mondo della moda. C’è stata più rappresentazione inclusiva su quel palco in cinque giorni che altrove.
Alcunə brand o designer continueranno a scegliere un preciso canone estetico - eh sì certo anche certa editoria a supportarlo - e nella complessità di ragionamento che auspichiamo e reclamiamo nel presente, avrà ragione di esistere anche nel futuro purché sia rappresentativo di una parte e non del tutto, purché occupi uno spazio ma non tutto lo spazio.
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