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Grazia Buongiorno

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Stefania Andreoli: «Porteresti il tuo bambino a un addio al nubilato?»

Stefania Andreoli: «Porteresti il tuo bambino a un addio al nubilato?»

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Il legame tra madre e figlio è ancora considerato inscindibile. Tanto che allontanarsi da lui per un fine settimana o una trasferta di lavoro è giudicato normale solo per i padri. La psicologa Stefania Andreoli spiega qui perché, invece, la maternità non debba far dimenticare a una donna che è, prima di tutto, una persona

Di recente, su Twitter, è comparsa la domanda di una donna che chiedeva se da madri le altre utenti avrebbero mai partecipato a un addio al nubilato portandosi al seguito la prole. Più o meno negli stessi giorni, su Instagram mi è stata girata la schermata della risposta assestata a un’influencer che aveva postato le immagini di un weekend senza bambini: “Io con mio figlio vado pure in bagno. Perché mai dovrei partire senza di lui? Ma tutto a posto?”.
Già, le domande.
È opportuno partecipare a una festa celebrata tradizionalmente tra adulti, portandosi da casa i piccoli? In quali circostanze trovare ammissibile una separazione - temporanea - dal bambino: una pipì con veloce lavaggio delle mani? In caso di risposta negativa, essere possibiliste qualora si ottimizzassero i tempi saltando il passaggio di lavarsi le mani? Una madre, da quando diventa tale, farà mai più una valigia dentro la quale non metta il figlio? E se viaggiasse per lavoro? Che cos’avrà mai di strano quella donna, ormai mamma, che decida volontariamente di partire per un programma di svago e puro piacere che non contempli il coinvolgimento del frutto del suo seno? Prima di rispondere, proviamo a cambiare prospettiva e a guardare le cose al maschile: i padri di quegli stessi figli, li porterebbero a un addio al celibato? Come fanno gli uomini tutto il giorno senza i loro bambini, in ufficio? Quando vanno in bagno sentono anche loro una certa nostalgia?

Potrebbe sembrare che io irrida la questione, ma non è così: al contrario, ha attirato la mia attenzione facendomi sentire a mia volta ingaggiata e coinvolta.
Il valore della funzione interrogante fa la qualità del mio mestiere di psicoterapeuta. Tuttavia, mi convinco una volta di più che in definitiva valga sempre e solo chiedere e chiedersi: “Perché?”. Quali sono le ragioni per le quali pensiamo e agiamo in un certo modo? Quale significato attribuiamo ai nostri gesti? Ci prendiamo abbastanza sul serio per conferirne loro almeno uno?

In troppi casi la mia sensazione è che il materno risenta ancora oggi di un carattere di prescrizione che in qualche modo, più ancora che aprire alla riflessione e infine lasciare esprimere consapevolmente, normi e regoli il comportamento delle donne in quanto madri. Ciò non vale solo se messo a confronto con le aspettative decisamente meno pressanti rivolte agli uomini se padri: a mio modo di vedere, il riferimento è all’identità. Resiste cioè una certa convinzione che il materno corrompa la condizione originaria, facendo perdere di vista che una donna intanto e prima di tutto il resto sia persona, e tale rimanga anche da genitore. E così, mentre è normale che la paternità si “aggiunga” all’individuo, alla maternità viene spesso chiesto di “sostituirsi” all’individuo e di occupare tutto lo spazio disponibile.

Ci sto, a patto che non lo si imponga come l’unico modello di mamma possibile, “altrimenti che madre sei”. Ci sto, se lo si sceglie per sé dopo essersi chieste - e risposte - all’unica, vera domanda: “Perché?”

Di Stefania Andreoli

Photo Credits: Cristiano Zabeo

© Riproduzione riservata

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