Per chi leggiamo? Dipende... E temo di dover partire un po’ da lontano, come merita ogni domanda fintamente semplice. Il fatto che “la bambina” leggesse era per mia madre motivo di grande vanto. Di tante e multiformi altre mie mancanze si lamentava con costante virulenza, ma almeno lì facevo il mio senza richiedere assistenza, senza rompere l’anima e senza coinvolgerla nei miei processi decisionali. Dato il controllo stringentissimo che veniva esercitato su ogni altra mia attività, da quelle scolastiche a quelle che gravitavano attorno a un’idea “globale” di formazione, mi sono sempre stupita molto di quel limbo felice in cui potevo fare sostanzialmente quel che mi pareva. Forse mia madre apprezzava la mia passione per la lettura perché quando leggevo stavo ferma, finalmente. O forse perché alla lettura è universalmente attribuita un’aura di desiderabile positività. Legge? Ma che brava questa bambina. E a quale genitore non garba un po’ di validazione esterna, di tanto in tanto?
Non ho troppi ricordi di come fosse la vita prima di saper leggere, ma so di aver sempre conside- rato le mie incursioni libresche come una felicità che aveva a che fare con il dentro e non con il riflesso che poteva generare sul fuori. Mi districavo già in abbondanza fra innumerevoli compiti e incombenze che prevedevano una valutazione costante e un’accurata misurazione del risultato e il fatto che io “andassi bene” in quel che facevo produceva anche un effetto molto percepibile sul clima domestico. Ma leggendo no, lì regnava la pace. Non c’erano coppe da sollevare, pagelle in arrivo, avanzamenti da conquistare nella catena alimentare o “belle figure” da fare. Mi sento a casa, se penso alla grande ansia performativa del nostro presente condiviso. Non mi rallegra, ma sono nel mio, riconosco di esserci orribilmente abituata. E continuo a fare resistenza nell’unico modo che conosco.
Quando ho iniziato a scrivere (anche) di libri online, più di dieci anni fa, mi sono resa conto di essermi invischiata in un paradosso avvincente: perché stavo condividendo quell’angolo che consideravo di rara libertà totale con un’ipotetica platea “pubblica”? Perché sentivo la necessità di raccontare i libri che avevo apprezzato? Ci ho messo un po’ a rispondermi, ma credo di essere approdata a una buona conclusione: sto colmando una lacuna. Cerco e cercavo qualcuno con cui parlare e che forse, crescendo, non avevo incontrato. Non qualcuno a cui far vedere che brava bambina ero (se m’impegnavo), ma qualcuno che abitava i miei stessi interessi e sperava di fare massa attorno a uno specifico nucleo di meraviglia. Si legge per conto proprio, è indubbio. Sono anche convinta che chi legge abbia un rapporto con la solitudine leggermente più risolto della media. Ma quanto consola, rallegra e salva poter discutere con gli altri di quello che si ama? Senza l’approccio verticale che sostiene l’insegnamento (che abita un contesto diverso) e senza le pose spocchiose di chi deve farti pesare quello che sa, senza volerti mai rendere davvero partecipe ma pensando solo a rafforzare una distanza. Leggendo mi sono scoperta libera e ho trovato unità di misura diverse per definirmi. Continua a essere una delle poche “mete” ideali che proteggo con cocciutaggine dall’efficienza e dalla produttività. Continuo a leggere per me, anche se lo faccio in mezzo agli altri. A velocità variabile, disorganizzata, spesso inconcludente, sbriciolando biscotti e infilandomi quasi di buon grado nei vicoli ciechi. Mi somiglio, quando leggo. Mi concedo di sbagliare, mi lascio respiro per approfondire e divagare. Ecco, vorrei che anche il resto del paesaggio che abito si sincronizzasse su quel tempo sospeso, che non serve materialmente a niente ma che ci dona gli strumenti per costruire tutto.
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