Siamo le donne che corrono in Ferrari
Fabienne sotto il casco ha lunghi capelli biondi. Deborah lavora nell’alta finanza e di solito guida con i tacchi. Tina è un’infermiera con la passione per l’adrenalina. Grazia le ha incontrate al Ferrari Challenge di Monza, la gara dove donne e uomini sono alla pari. Perché in pista conta solo la velocità
Picchia forte il sole sulle “rosse” e sull’asfalto dell’autodromo di Monza, in un caldissimo sabato di giugno. Siamo nel bel mezzo del Ferrari Challenge, il campionato monomarca del cavallino, dove corrono scuderie private, tutte targate Ferrari, e dove anche i proprietari vengono invitati a “girare”, tirando i motori dei loro veicoli fino 300 chilometri all’ora, sulle curve dell’autodromo.
A questi eventi, diversi nel mondo, partecipano personalità di ogni genere. L’attore Michael Fassbender per esempio è un habitué. . Scucire agli uomini Ferrari altri nomi di celebrità è un’impresa. O li sai, e chiedi informazioni specifiche, alle quali ti rispondono con un «Sì, è vero», oppure vigono le loro severe regole sulla privacy. «Sì, è vero», qualche volta ha corso la popstar Eros Ramazzotti. Gli altri partecipanti - capitani d’azienda, rampolli di famiglie d’alto lignaggio - devi riconoscerli sotto occhiali da sole a specchio e cappellini.
In un posto come questo, ti aspetti di trovare quasi solo uomini. E ce ne sono, eccome: più o meno dai 3 agli 80 anni. Quello che non ti aspetti, invece, è di scoprire che anche le donne hanno una certa inclinazione per le curve pericolose. In Ferrari le donne sono circa un quarto della forza lavoro, 40 sono ingegnere, di cui 15 impegnate nella gestione sportiva, cioè direttamente in scuderia. D’altronde, come dicono a Maranello, l’automobilismo tra gli sport è quello che annulla le differenze tra maschi e femmine. In pista non esistono categorie, si corre e vince chi arriva primo.
E se a picchiare di più con l’acceleratore sono i maschi, e se esiste una coppa specifica dedicata alle “Ladies” all’interno del Challenge, i tempi in cui le donne erano mosche bianche sono al tramonto.
«L’unica differenza è culturale: gli uomini giocano con le macchinine da quando sono piccoli. Ma tutto è relativo: a 7 anni, le mie amichette chiedevano i pony, io volevo il go-kart», dice Fabienne Wohlwend, 19enne del Lichtestein dai lunghissimi capelli biondi, pilota di professione, una delle favorite del Challenge. Ha preso la patente da neanche un anno e in pista è considerata la rivale di Mick Schumacher, il figlio dell’indimenticabile campione tedesco Michael.
Le signore in Ferrari continuano a salirci anche coi tacchi, sì, ma non sul sedile del passeggero. Vedi Deborah Mayer. Francese che vive in Svizzera e lavora nell’alta finanza, sposta capitali in tutto il mondo, colleziona arte e macchine. Di Ferrari ne ha «un po’», dice, «e non le lascio certo in garage. La mia preferita è la 488 Spider». Deborah in città la guida calzando Jimmy Choo e Christian Louboutin da minimo 10 centimetri di tacco, ma in autodromo mette tuta e casco. «Moda e motori, si sa, funzionano benissimo insieme», conferma. La passione per la guida gliel’ha passata il compagno, collega sul lavoro e in pista, Claudio Schiavone. Ma la luce negli occhi quando parla di risultati al cronometro è tutta sua.
La passione trasmessa da marito a moglie è anche il caso di Tina Kok. La signora danese, infermiera di professione, nonché moglie di milionario, predilige le auto d’epoca. Ha iniziato a correre con la Mille Miglia e oggi debutta nella Challenge ad alta velocità contemporanea. È una delle pilote più adulte della competizione: non ha una ruga, ma ha già compiuto 56 anni. Mentre lei, suo marito e suo figlio minore Nicolaj, di 22 anni, corrono in pista, il maggiore Joachim, che di anni ne ha 23, vive a Londra e amministra le società di famiglia: «È “The Brain”, la mente, ma in auto è una schiappa», lo canzona come una mamma italiana non farebbe mai.
Chiedo a queste tre donne da dove nasca l’amore per la velocità. La prima a rispondere è Deborah: «È una questione di competitività. Io amo la competizione da quando sono piccola, così come amo le scarpe. Una cosa non esclude l’altra, l’importante è essere indipendenti, stare bene con se stesse».
Ma non vorrete dire che non c’è neanche un po’ di sorpresa tra gli uomini quando vi levate il casco? «Ormai non più. All’inizio, comunque, il vero problema non era tanto il pregiudizio, quanto il fatto che, con una tale predominanza di maschi, non fossero previsti spogliatoi femminili», continua Deborah. E aggiunge Fabienne: «A me piace questo: gli uomini in pista non mi giudicano perché sono donna, ma perché sono veloce». Solo Tina non è del tutto d’accordo: «Io mi sento considerata un po’ diversa, però, in quanto donna. Tutti pensano comunque che siamo più prudenti di loro». E lo siete davvero? O almeno un po’ più paurose? Le tre mi guardano come se fossi matta. Deborah spiega: «Con la paura non si può guidare. La paura è pericolosa, ti fa sbagliare. E in pista non sei sola, hai delle responsabilità verso gli altri. Sei tu il pilota, tu guidi, non è la macchina a guidare te». Tina, che davvero un po’ più prudente e dolce lo è davvero, aggiunge: «Le farfalle nello stomaco le ho, ma passano non appena salgo in macchina». Conclude Fabienne: «Se sai guidare e rispetti la macchina, va tutto bene. La paura non esiste».
Ci vuole, però, anche il parere di un maschio. Ne cerco uno di quelli Alfa per eccellenza. Si chiama Josh Cartu, biondo, danese, sguardo da dandy e famoso in pista perché indossa tute da corsa di Dolce & Gabbana. Lui è il pilota furbo che piace alle donne e fa infuriare gli uomini, mi dicono. Quando qualcuno riconosce la sua auto grigio perla con targa personalizzata, è un assalto di cacciatori di selfie. Intercetto Josh all’ingresso del box della scuderia e scopro che è uno di quelli entusiasti di dividere la pista con signore e signorine. «Per quanto mi riguarda, dovrebbero essercene di più. È stupendo avere donne in giro per i box e in gara. Anche se per ora è vero, sono più veloci gli uomini, aspettiamo che arrivi una ragazza velocissima».
A questo punto, manca solo una cosa, per capire davvero questo mondo: un giro in pista. Non guida - ahimé - Josh, ma Beppe, veterano pilota Ferrari. Partiamo, lo vedo sorridere mentre mi mostra il tachimetro: siamo a 265 chilometri all’ora sul rettilineo dell’autodromo. Non passa neanche un minuto e siamo di nuovo ai box. Ma come, abbiamo già finito?
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