Dal pinkwashing al gender Pay gap: ABC di una (seria) conversazione sulla condizione femminile
Parlare di condizione femminile in Italia è di moda, tanto che è nata l'espressione pinkwashing, per indicare tutte quelle comunicazioni apparentemente femministe che si rivelano invece a una seconda occhiata banali strategie di marketing.
Se ne parla ogni volta che esce un nuovo studio, una nuova ricerca. Un nuovo caso di cronaca. Se ne parla tanto, ma la reale situazione delle donne non sembra migliorare mai.
E non perché non ci siano tentativi da parte delle istituzioni di migliorare la situazione, ma perché il problema è profondo e radicato e coinvolge aspetti economici, culturali, strutturali del nostro Paese.
Un Paese in cui una donna su cinque lascia il lavoro dopo essere diventata mamma, il più delle volte nei primi tre anni di vita del bambino. Un Paese che in quanto a occupazione femminile è ultimo in Europa.
Solo per dare qualche numero (i dati annoiano sempre e ormai ci siamo quasi assuefatti, ma senza di essi è difficile rendersi realmente conto del problema), emerso da un dossier del Servizio Studi della Camera dei Deputati: nel quarto trimestre 2022 il tasso di occupazione femminile per le donne di età compresa tra i 20 e i 64 anni è stato pari al 55%, mentre quello dell’occupazione medio nell’Ue è di quasi 70 punti percentuali.
Per parlare quindi di femminismo e di parità di genere bisogna partire anche da qui, dalle condizioni che spesso impediscono – di fatto – a una donna di ambire alle stesse opportunità che spettano agli uomini per una pura differenza di cromosomi.
Al netto del pinkwashing come sono messe le donne in Italia?
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Cosa si intende per parità di genere
Secondo l'Unione Europea per parità di genere si intende la «parità tra donne e uomini rispetto ai loro diritti, trattamento, responsabilità, opportunità e risultati economici e sociali». E si ottiene quando questi diritti sono rispettati in egual misura e i «diversi interessi, bisogni e priorità di uomini e donne sono ugualmente valutati».
Basta questa definizione per rendersi conto del disequilibrio fra le due parti e che la strada ancora da fare è molto lunga.
Intanto, però, una serie di ambiti in cui il divario è evidente emergono dalla road map tracciata dalla Commissione europea nella Strategia per la parità di genere 2020-2025, i cui punti principali sono: violenza contro le donne, trasparenza retributiva e divario di genere a livello retributivo, equilibrio di genere negli organi sociali e l’equilibrio tra lavoro e vita privata.
Tutto questo affinché «un’Europa in cui donne e uomini siano liberi di seguire il percorso che hanno scelto nella vita, dove abbiano pari opportunità di prosperare e dove possano ugualmente partecipare e guidare la nostra società europea» sia possibile.
A livello nazionale, invece, abbiamo il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr, in cui si inserisce il Sistema di certificazione della parità di genere), la Strategia per la parità di genere 2021-2026 e il Bilancio di genere.
Cos'è il gender pay gap
In parole molto semplici, il gender pay gap è la differenza di retribuzione fra donne e uomini per le stesse mansioni. I calcoli non sono mai semplici perché dipendono da numerose variabili.
Tuttavia, a livello europeo, Eurostat rileva un gender pay gap calcolato sulle retribuzioni orarie del 13%: significa che per ogni euro guadagnato da un lavoratore della Ue, una lavoratrice guadagna 87 centesimi. Il divario di genere a livello retributivo è più elevato nei lavori ben pagati. Questo è un modello comune in tutti gli Stati membri e si verifica nonostante le donne più giovani abbiano sempre più risultati migliori degli uomini più giovani nel livello di istruzione.
Tornando nello specifico alla situazione italiana, secondo l'Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato dell’Inps, nel 2022 la retribuzione media annua è costantemente più alta per il genere maschile, con una differenza di 7.922 euro (26.227 euro per gli uomini contro 18.305 euro per le donne).
Questi sono solo alcuni dei dati emersi dai diversi studi, con cui potremmo andare ancora avanti a lungo, ma la sostanza non cambia. Il divario c'è ed è ancora piuttosto evidente.
Cos'è il pinkwashing
Come già detto, negli ultimi anni parlare di condizione femminile è diventato di moda. La crescente sensibilità delle nuove generazioni verso il tema ha portato alla nascita di siti e piattaforme specializzati nella sensibilizzazione su questo tipo di argomenti e di numerose influencer che mirano a offrire nuovi punti di vista e accendere i riflettori sulla questione.
Il rinnovato interesse verso queste tematiche, però, ha solleticato alcune aziende che hanno adottato strategie di marketing puntando su un femminismo di facciata al solo scopo di vendere.
Qualche esempio? Marchi di abbigliamento che propongono t-shirt con motti legati al girl power e che però producono in massa sfruttando le proprie lavoratrici. Per questo genere di comportamenti è nato il termine Pinkwashing.
La parola è stata usata per la prima volta dalla Breast Cancer Association per riferirsi alle campagne pubblicitarie di aziende che sfruttavano il tema della lotta contro il cancro al seno, fingendo di sostenere la causa col solo fine di vendere i loro prodotti. Da lì, in senso più ampio, il concetto si è esteso in generale alla condizione femminile. Il concetto, quindi, è un po' lo stesso applicato al termine Greenwashing (quello che rappresenta alcune aziende che fingono di sostenere la causa ambientalista essendo tutt'altro che sostenibili).
Perché si parla di sessismo interiorizzato
Ci sono situazioni che fanno talmente parte della nostra cultura che – almeno finora – sono state ritenute normali, non degne di attenzione né tantomeno di sconvolgimento. E invece, sono proprio comportamenti di un certo tipo che vanno modificati per ottenere un cambiamento culturale reale da cui partire.
Un esempio spesso utilizzato è quello delle pubblicità anni Novanta di giochi per bambini, riflesso di una società in cui le donne erano quelle dedicate alla cura della casa e dei figli (e quindi per le bimbe vai di bambolotti, cucine, servizi da tè) mentre gli uomini erano i lavoratori “veri”, da cui dipendevano giochi come macchine, esperimenti scientifici, ecc.
Si potrebbe andare avanti a lungo anche con esempi in cui gli stereotipi di genere sul ruolo sociale femminile sono talmente parte del linguaggio comune da essere considerati normali. Come quando si dice che una donna ha le palle, intendendo quindi che un certo tipo di forza, di tenacia, di coraggio sia appannaggio del solo sesso maschile. O che un bambino che piange è una femminuccia, in quanto in balia delle sue emozioni.
Il peso delle aspettative
Tanto della società in cui viviamo dipende dal modo in cui cresciamo. In un Paese che si basa sul welfare familiare, in cui le donne sono costrette a lasciare il loro lavoro per accudire i figli o gli anziani, sopperendo quindi a una carenza di servizi statali, è difficile pensare di poter dare esempi diversi alle generazioni future.
Non solo. Viviamo in un contesto in cui la pressione sociale è sempre più forte, ancor di più con i social che vengono utilizzati da utenti sempre più piccoli. Secondo una ricerca globale condotta da Edelman DXI per il Gruppo Lego, la pressione della perfezione e l’uso di un linguaggio quotidiano caratterizzato da pregiudizi possono rappresentare un rischio per il raggiungimento del potenziale creativo, in particolare per le bambine.
Dalle interviste condotte in 36 Paesi con oltre 61.500 genitori e bambini di età compresa tra i 5 e i 12 anni, è emerso che già all'età di 5 anni la fiducia creativa delle bambine inizia a essere compromessa.
A questa giovane età, infatti, tre quarti (76%) si sentono sicure nella propria creatività, ma questa fiducia diminuisce durante la crescita e due terzi delle bambine spesso si sentono preoccupate nel condividere le proprie idee.
A ciò si aggiunge il peso del perfezionismo e dell’ansia di commettere errori (72%).
Non solo: oltre la metà dei bambini ritiene che gli adulti ascoltino maggiormente le idee creative dei bambini rispetto a quelle delle bambine.
Il 68% dei genitori concorda sul fatto che la società prenda più sul serio i creativi maschi rispetto alle femmine.
(Per dare risposta a questi risultati e sostenere la creatività femminile il Gruppo Lego sta lanciando una serie di iniziative come workshop per bambini e bambine e una guida per i genitori, oltre a un programma di eventi in collaborazione con Save the Children).
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