Mara Maionchi: «Ci vuole coraggio a dire no»
Ai Bagni Albertina di Forte dei Marmi pare di stare negli Anni 60. Ci sono le biciclette, le signore con i kaftani bianchi, le generazioni che si incrociano sulla passerella. C’è Chicco che passa e saluta “la Luisa”, c’è l’amica americana, il gatto della signora del bar.
Sotto il portico, seduta all’ombra, occhiali da sole e kaftano sì, ma blu e con un ricamo di perline, c’è anche lei. Mara Maionchi, 76 anni. Che viene “al Forte” dal 1958, con i suoi genitori, «Mio padre era lucchese», e che stamattina è qui con suo marito Alberto Salerno, le figlie Camilla e Giulia (che aspetta un bimbo), e i nipotini Mirtilla e Niccolò.
«Tutti qui, come quando le ragazze erano piccole. Che bello», dice. Io irrompo nelle vacanze riportando Mara alla quotidianità che la aspetta, a partire dal 14 settembre. Cioè X Factor, dove torna dietro il banco dei giudici dopo sette anni di assenza, dal 2010.
Ha accettato subito?
«Ho avuto qualche perplessità: sarò ancora capace? I tempi cambiano, è cambiato il mondo della musica. Ma la leva è stata il pensiero di aiutare questi ragazzi».
Ci vuole più coraggio a tornare o a rifiutare e difendere la propria credibilità?
«La mia credibilità è sempre stata relativa. Io non sono immune da errori, anzi, nella vita ho fatto più sbagli che cose fatte bene. Per l’ambizione ci vuole più coraggio a dire di no. Ma nella realtà, il difficile è tornare. Perché, avendo lasciato un buon ricordo, rovinarlo dispiacerebbe».
Noi conosciamo il suo passato di produttrice musicale, ma come donna lei come si racconterebbe?
«Sono una cresciuta in famiglia. Diciamo che quelle di casa mia sono donne sempre fuori dagli schemi. Mia nonna si è separata nel 1904 da un uomo che non era un esempio di santità. Anche le mie zie erano particolari. La zia Anita poi, cugina di mamma, non si è mai sposata e ha sempre lavorato».
Non era lesbica? «Sì. Ma la cosa non ci ha mai suscitato grande impressione. Era normale. Trovo se mai più rivoluzionario che si fosse iscritta al Partito comunista nel 1918».
Una donna rivoluzionaria che cosa fa? «Non è una che va contro le regole per forza. Anzi, quando si sposa le rispetta. Ha tanta pazienza. Nei confronti del marito e dei figli. Essere normali è rivoluzionario, perché è faticoso».
Che cos’è allora la normalità?
«Quello che uno è. Quando uno è realmente se stesso, è normale. No?»
Come lei, sposata dal 1976?
Suo marito l’ha tradita, l’avete raccontato nel libro Il primo anno va male, tutti gli altri sempre peggio. Ha mai ricambiato il tradimento?
«In un modo diverso, cioè giocando d’azzardo. Non riuscivo a controllarmi, ho perso somme importanti, facendo danni anche a lui. Il tradimento non è solo il colpo di testa di una sera, ci sono tanti modi di tradire, anche far credere di essere una persona perbene».
Lei lo è?
«Alternativamente».
È prepotente?
«Io odio le persone prepotenti. Uno ha il diritto a fare quello che vuole rispettando le regole del buon vivere». Perché Mara piace a tutti? «Perché faccio un po’ ridere, dico qualche parolaccia. Ma non è che le dico apposta. Se si chiama “culo”, mica è colpa mia».
Che cos’ha in più lei degli altri?
«Ho avuto forse più fortuna. E il regalo della natura di essere abbastanza simpatica».
Mara che madre è?
«Una che tende a dire alle figlie di fare la loro vita, ma entro il meno possibile nelle loro scelte. Sono stata giovane tanti anni fa, ma certe cose me le ricordo. Provo a spiegare alle ragazze di sopportare un po’ di più, quando litigano con i mariti. Non puoi mettere in discussione una vita insieme solo per una sciocchezza».
Qual è il motivo più stupido per cui si litiga?
«“Dove hai messo quella cosa lì?”. Uno non se lo ricorda, se la prende con l’altro e finisce che viene fuori tutto: la madre, la zia ed è un attimo che diventa una tragedia. Poi tornare indietro è faticoso».
E come nonna com’è?
«Ho portato Niccolò, 5 anni, al mare una settimana da sola con mio marito, il Salerno. Ce la siamo cavata. Certo, una settimana è meglio di sei mesi».
Perché chiama suo marito per cognome?
«Perché è il Salerno. Mica riesco a chiamarlo Alberto. Forse lo facevo nell’intimità, Alberto, amore, non so. Poi in Emilia si usava, più che dire “me’ marì”, lo si chiamava per cognome. Il cognome è un’appartenenza precisa».
Lei a chi appartiene?
«A me, e in parte a tutti quelli che hanno trascorso la loro vita insieme con me. Le mie nipoti, mia sorella, mio cognato».
Tutti di famiglia?
«No, anche amici. Non ultima la consuocera di mia figlia che era una persona che mi è piaciuta molto».
Non c’è più?
«È morta l’anno scorso. Una donna così piacevole, comprensiva, che amo ricordare. Mi ha insegnato cose per cui non ero così portata».
Ad esempio quali?
«Essere più gentile e accomodante. Non abbiamo passato molto tempo insieme, ma mi ha dato lezioni importanti».
La voce di Mara si incrina. Non trattiene le lacrime. Non siamo abituati a vederla commossa.
«Come no? Sono una “commuovona”».
Eppure non l’abbiamo vista piangere nemmeno raccontando del suo tumore al seno.
«Perché il tumore non fa commuovere. Fa paura. “Come? È successo proprio a me?”, ti dici. Sì, viene anche a te. Ciò che le persone mi insegnano mi fa commuovere».
Qual è la più grande lezione che ha ricevuto?
«Da uno sconosciuto. Avevo 18 anni, ero una ragazzina che si sentiva padrona del mondo. Mi trovavo al ristorante, non ricordo nemmeno di che cosa stessi parlando. A un certo punto si avvicina un signore, che mi dice una serie di cose tremende, vere bastonate morali, ricordo principalmente: “Sei un’arrogante”. Col tempo ho capito che aveva ragione e ho limato il mio carattere».
A cambiare ci vuole coraggio?
«A capire, ci vuole coraggio. A cambiare, se capisci, no».
Una cosa che ha capito lei della vita?
«Il lavoro batte il talento, se il talento non lavora duro. Non è d’obbligo avere tutto ciò che desideri, anche se il talento ce l’hai. Sei ambizioso? Devi fare di più».
Lei smetterà mai di lavorare?
«No, finirò quando non mi vorranno più. E quando sarà, cercherò di capirlo in tempo».
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