Scusi, dove posso trovare Léa Seydoux?». La ragazza alla reception dello studio fotografico parigino, dove l’attrice francese sta posando per il servizio esclusivo di Grazia, non alza neppure gli occhi dall’agenda su cui sta annotando un appuntamento. «Li sente questi strilli? Li segua».
Tendo l’orecchio: in effetti, nei tre piani del loft dai muri di mattoni bianchi, dove di solito riecheggiano i brani di qualche gruppo rock alternativo, risuonano i vigorosi vagiti di un neonato. “È venuta con il suo bambino”, deduco mentre salgo due rampe di scale. Non ho neppure bisogno di chiedere conferma: appena svolto nel corridoio vedo una carrozzina e, subito dopo, l’attrice. A 31 anni, Léa Seydoux ha un curriculum da star e una carriera internazionale che deve molto al Festival di Cannes, che proprio in questi giorni apre i battenti: notata nel 2009 in Bastardi senza Gloria di Quentin Tarantino, film vincitore della Palma d’Oro e, due anni dopo, in Midnight in Paris di Woody Allen, ha sedotto Hollywood in Spectre, nei panni di James Bond girl, dopo essersi aggiudicata, sempre a Cannes, la Palma d’Oro come protagonista di La Vita di Adele di Abdellatif Kechiche.
E proprio sulla Croisette l’avevo vista sfilare sul tappeto rosso in uno splendido abito di seta verde bottiglia in occasione della proiezione di Saint Laurent, il film di Bertrand Bonello dove interpretava il ruolo di Loulou de la Falaise, musa e amica dello stilista.
Questa volta me la ritrovo davanti in accappatoio bianco, tra le braccia ha il piccolo George, nato il 18 gennaio scorso, che ormai non piange più, consolato dal seno materno. Léa Seydoux, seguita dalla tata, cammina avanti e indietro cullando il suo bambino avuto dal compagno André Meyer, mentre, nella sala accanto, il fotografo e il suo staff verificano gli scatti della mattinata.
«Rivendicare il diritto di essere una madre che lavora e che per questo non rinuncia all’allattamento mi sembra una forma di responsabilità», mi dirà più tardi l’attrice. Per il momento la seguo con gli occhi mentre sparisce dietro un paravento per tentare di fare addormentare suo figlio.
Ma l’impresa si rivela più difficile del previsto, a tal punto che un’assistente mi propone di posporre l’intervista: «Come vede, oggi è un po’ complicato». Così ritrovo Seydoux una settimana più tardi, questa volta al telefono. La chiamo a casa, l’attrice risponde con una voce dolce, quasi infantile. Nessun rumore in sottofondo, George sta sicuramente facendo un sonnellino.
Com’è stato il suo ritorno al lavoro dopo la gravidanza?
«Intenso. Ho due film in preparazione».
Può anticiparmi qualcosa?
«Sto per cominciare le riprese di Zoe, dell’americano Drake Doremus, con Ewan McGregor e Christina Aguilera, dove interpreto il ruolo di un robot che vive una storia d’amore con un essere umano. E subito dopo sarò sul set di Kursk, di Thomas Vinterberg, accanto a Colin Firth. Il film racconta la tragedia del sottomarino russo affondato nel 2000 con tutto il suo equipaggio. Sarò la moglie del comandante».
Lei lavora sempre di più all’estero e anche il suo ultimo film, È solo la fine del mondo, era diretto da un canadese, Xavier Dolan. Vuole forse stare lontana dalla Francia?
«No, è solo un caso. Fin dall’inizio della mia carriera ho alternato produzioni nazionali e internazionali. Il fatto di parlare l’inglese ha allargato immediatamente il campo delle possibilità».
Con chi ha debuttato in lingua straniera?
«Con Quentin Tarantino per Bastardi Senza Gloria».
È rimasta in buoni rapporti con il regista americano?
«Mi capita d’incrociarlo in occasione di qualche festival, ma la vita degli attori è vagabonda, frenetica ed è molto difficile restare in contatto con i compagni di lavoro, anche quando li apprezziamo molto e hanno un posto speciale nel nostro cuore».
Ricorda un’esperienza cinematografica particolarmente piacevole?
«Quella vissuta sul set di Spectre come Bond Girl. E non solo perché è stata molto divertente. Sam Mendes (il regista del film, ndr) è un uomo sensibile e intelligente che sa come ottenere il meglio dai suoi attori. E anche il protagonista, Daniel Craig, è una persona squisita. Si sono dimostrati subito aperti e molto gentili».
Il direttore del festival di Cannes, Thierry Frémaux, la descrive come “un misto di Brigitte Bardot, Juliette Binoche e Kate Moss”. In pratica questo è il profilo di una star. Quando ha capito che il cinema sarebbe stato il suo destino?
«Penso di non aver mai avuto altre opzioni. Ero una bambina solitaria, mi sentivo costantemente fuori posto. Il cinema mi ha salvata. Mi ha permesso di trovare un ruolo nella società, mi ha attribuito una funzione. Diventare attrice mi ha aperto le porte di una comunità, quella degli artisti, in cui posso riconoscermi. Non ci crederà, ma mi ha resa una donna più stabile».
Perché, secondo lei?
«In genere gli attori sono persone poco equilibrate, un po’ anarchiche, che scelgono un mestiere pieno di incertezze e senza una vera routine. A me è successo il contrario, posso dire che il cinema mi ha strutturata e liberata dalla paura di rimanere perennemente ai margini».
Che cosa la faceva soffrire di più da ragazzina?
«Il fatto di non essere portata per lo studio. Non sono mai riuscita ad adattarmi al sistema scolastico, ero un’alunna distratta. Per me è un grande rammarico. Oggi mi rendo conto delle mie lacune ma mi consolo pensando che ognuno di noi ha almeno una vocazione, un dono. L’importante è fare qualcosa che ci appassioni».
Quando ha cominciato a muovere i primi passi nel mondo del cinema?
«Verso i 18 anni. Prima volevo diventare una cantante, adoravo l’opera. Avevo anche cominciato a seguire dei corsi, ma il canto richiede rigore e non ero molto disciplinata. Oggi ho l’impressione d’aver perso la voce, anche se fare una commedia musicale alla La La Land resta il mio sogno. Se me lo proponessero non direi di no».
Qual è l’ostacolo più difficile che ha dovuto superare?
«La mia timidezza. Ho lavorato molto su me stessa per riuscirci. Non è stato facile e ancora oggi ci sono momenti in cui il disagio provato nella mia infanzia riaffiora. Ma nel complesso posso dire di sentirmi più fiduciosa, più sicura di me».
Suo nonno, Jérôme Seydoux, è il patron della casa di produzione cinematografica Pathé. Quando lei ha annunciato che avrebbe fatto l’attrice, come ha reagito la sua famiglia?
«Mi ha lasciato carta bianca, non è intervenuta: né per invitarmi a desistere né per incoraggiarmi. La mia è una famiglia molto libera».
Come affronta un ruolo?
«Appena il regista grida: “Motore!”, entro completamente nel personaggio, “sono” il personaggio. Un approccio molto istintivo che è comunque preceduto da una fase di preparazione più cerebrale e faticosa».
C’è stato un momento in cui si è detta: “Ce l’ho fatta, sono arrivata”?
«No, quando accetto di fare un film, ho sempre l’impressione che sia il primo. L’emozione e l’incertezza sono quelle del debutto. Vengo immediatamente sommersa da un’onda di sentimenti contrastanti in cui si mescolano l’apprensione e l’eccitazione. Ma appena mi ritrovo sul set, cambia tutto: mi sento a casa, mi sento là dove devo essere. Sono fatta per il cinema».
Lei è spesso sul tappeto rosso e per l’occasione sfoggia abiti firmati da grandi stilisti. Grazie al suo lavoro che rapporto ha sviluppato con la moda?
«La creatività mi interessa, in tutte le sue forme, e ogni volta che mi invitano a una sfilata per me è un grande piacere. Detto questo, anche se amo la moda e posso passare un intero pomeriggio a fare shopping, non seguo mai le tendenze. Ho una visione molto personale dello stile e nel mio guardaroba ci sono capi che non rispecchiano necessariamente quello che si usa in quel momento».
Lei ha appena avuto un bambino. Che cosa la entusiasma di più nel suo nuovo ruolo di mamma?
«L’idea di trasmettergli il mio mondo. L’educazione è un’avventura formidabile. E certamente non a senso unico: ho già l’impressione d’imparare molto da mio figlio, e sono certa che questo sentimento di arricchimento si intensificherà man mano che diventerà grande».
Molte donne fanno coincidere la maternità con la fine della spensieratezza. Diventare responsabili di un essere che dipende in tutto e per tutto da noi cambia radicalmente il modo di vedere la vita. È così anche per lei?
«Sentirmi responsabile di mio figlio è una sensazione bellissima. Forse ci sono persone che desiderano restare eternamente adolescenti, ma non è il mio caso. Amo l’idea di occuparmi di qualcuno. E anche se so di non essere una madre perfetta ho deciso di non lasciarmi travolgere dal senso di colpa. La tentazione è forte, quando ci si trova davanti alla necessità di conciliare vita privata e professionale e quindi di fare dei compromessi».
Fino a qualche anno fa, in Francia, erano ancora una minoranza le madri che decidevano di allattare al seno, soprattutto se dovevano tornare rapidamente al lavoro. Pensa che la situazione stia cambiando?
«Sì, questo gesto è molto più valorizzato di una volta. Se ne riconosce l’importanza».
Perché?, le chiedo mentre il pianto improvviso di George preannuncia la brusca fine della nostra intervista.
«Il concetto di femminismo è evoluto, oggi è più facile prendere atto di tutti gli aspetti della nostra femminilità», mi risponde l’attrice che ha già la voce concitata, prima di riagganciare per occuparsi di suo figlio. «Abbiamo finalmente capito che non dobbiamo comportarci come per gli uomini per avere i loro stessi diritti».
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