Francesca Michielin: «Siamo qui per farci sentire»
La chiamano la Generazione Z. Sono i nati dalla seconda metà degli Anni 90 in poi. Ragazzi sempre connessi, senza frontiere, che considerano la diversità un punto di forza e che, nel lavoro come nell’amore, si fidano solo di loro stessi. Come la cantante Francesca Michielin, che nel suo nuovo album ha messo la passione per la musica che la tiene sveglia e la rabbia per un amore che l’ha fatta soffrire.
L’ultima volta che ho visto Francesca Michielin, l’ultima cosa che mi ha raccontato, era la storia del suo amore impossibile. Un amore che avrebbe voluto vivere, ma non poteva. Perché Francesca doveva studiare e lavorare al nuovo album. Non avrebbe potuto dare a lui, misterioso ragazzo più grande di lei, quello che da un amore bisognerebbe aspettarsi. Poi passa un anno. Francesca «Testa bassa e pedalare!», come dice lei, il disco lo scrive e io la incontro di nuovo.
Anticipato dai singoli Vulcano e Io non abito al mare, il 12 gennaio è uscito 2640 (Sony), che prende il nome dall’altitudine di Bogotà, la capitale della Colombia. Da marzo Francesca partirà in tour nei club di tutta Italia: anteprima il 16 al Campus Industry di Parma, inizio ufficiale il 17, al Fabrique di Milano. Ascoltiamo insieme l’album, e riprendiamo il discorso esattamente nel punto in cui l’avevamo lasciato un anno fa.
Francesca, che fine ha fatto quell’amore?
«È finito miseramente. Ma la rabbia e l’angoscia hanno generato questo disco».
Lo sa che si sente molto nelle canzoni, vero?
«Diciamo che la “V” di Vulcano in realtà è la “V” di “Vaffa”, è l’esplosione della rabbia più grossa che avevo dentro. E Scusa se non ho gli occhi azzurri, la primissima canzone che ho scritto, nasce da un dolore atroce».
E adesso come sta?
«Sono felice: ho trasformato tutto il malessere che avevo dentro in qualcosa di bello. È vero, stavo in casa a piangere tutto il giorno, ma adesso sento la grande forza di tutto questo lavoro. Allora, invece, vedevo la causa della fine di quell’amore in errori solo miei, e mi sentivo in dovere di chiedere scusa».
Chi è che merita le sue scuse adesso?
«Nessuno. Bisogna agire sempre cercando di comportarsi bene. Se sbagli, chiedi scusa, speri che l’altra persona capisca. Ma dopo puoi anche dirgli ciao».
Non c’è rabbia invece in Comunicare. Perché?
«È stata una delle ultime canzoni che ho scritto. Avevo bisogno di un manifesto programmatico sonoro che dicesse che la cosa più bella e importante nella vita è proprio comunicare».
Dice: «Ho una zia in Angola/conosciuta in treno/mi ha detto: “Lavati le mani per salvare il mondo”». Chi è la zia?
«Una signora che ho conosciuto in viaggio. Io le ho raccontato che vorrei studiare con il programma Erasmus in Mozambico, mentre lei sta elaborando un progetto di sviluppo in Angola, basato sul principio che, se tutti si lavassero le mani, la popolazione sarebbe libera dalle malattie. Ho voluto raccontarlo perché un altro tema fondamentale del disco è proprio l’incontro. Tu sei le persone che incontri, le scelte che fai, i sogni che hai, le cose che assaggi e che scegli di non fare».
Qual è l’incontro più importante della sua vita?
«Quello con il cantautore irlandese Damien Rice. Quando l’ho incontrato mi ha detto una frase illuminante: “Una cosa è il desiderio, un’altra l’amore”».
Cioè?
«L’amore è un sentimento totale e complesso. Nella vita tante cose possono essere tante cose diverse. Ma l’amore no, è solo quella cosa lì. E se non lo è, vuol dire che ti sei sbagliato. Quando desideri non ami, ma brami».
Che cosa ama e che cosa desidera, lei?
«Amo mangiare, dormire, fare musica. Quello che desidero è laurearmi. Studio composizione al Conservatorio».
Ancora amore: in Noleggiami ancora un film scrive che «Ti amo si dice una volta sola nella vita». Lo crede davvero?
«Sì. Lo dici sempre, ti amo, ma alla fine lo provi solo una volta».
Quanto c’è di Francesca Michielin dentro 2640?
«Tutto. E tutto il mio mondo. C’è mio fratello che dice una frase in cinese, un amico che parla in portoghese, mia cugina in catalano. E la prima frase del disco, quella che cita Bogotà e dà il titolo all’album, è di Stefania, la mia migliore amica, che è nata proprio lì».
Sembrava la sua, di voce.
«No, è che noi 20enni di Bassano del Grappa parliamo tutti così».
È vero che lei conosce nove lingue?
«Più che altro le ascolto. Ho parte della famiglia in Francia, parte in Spagna, e ho vissuto molto nella comunità filippina».
Come mai?
«A Bassano abito in un quartiere multiculturale, con una forte comunità filippina e una ghanese. Dalla scuola alla messa della domenica ho fatto tutto con gli italiani di seconda generazione».
Le è piaciuto?
«Mi ha arricchito tantissimo».
In Bolivia, che è anche il titolo di una delle canzoni, ci è andata?
«Non ancora. Ma non è necessario. Bolivia parla di una ragazza insoddisfatta della sua vita, che dice: “Parto, salvo il mondo, faccio cose incredibili”. Ma la verità è che i problemi che hai qui, te li porti dietro ovunque, anche dall’altra parte della Terra. La canzone è un invito a rendersi conto che non possiamo scappare: sono i piccoli gesti di ognuno a fare la differenza».
Qual è il suo?
«Stare super attenta alla provenienza di quello che mangio. È difficile controllare tutto, ma qualcosa si può. E poi l’informazione: ora che c’è internet tutti possiamo sapere tutto, ma questo non significa che tutto sia vero. Anzi, trovare il vero è sempre più difficile. Quindi cerco di documentarmi più che posso, capire e verificare le fonti di quello che leggo».
Le dà fastidio quando gli altri non lo fanno?
«No, ognuno è libero di fare quello che vuole. Io posso coinvolgere, invitare, ma non sono qui a insegnare nulla. Semmai a testimoniare».
Che cosa?
«Quello che cerco di fare sempre, cioè non concentrarmi sul “come”, ma sul “cosa”».
Si spieghi meglio.
«Come appari in una foto sembra valere più della musica che fai, ma io cerco di ricordare a me stessa che faccio la musicista. “Faccio” e non “sono”: il mestiere si fa, non si è. L’ho appena imparato».
La sua immagine è coerente con la sua musica?
«Sì, anche quello è un mio modo di esprimermi, ma non in termini assoluti».
Per lei c’è qualcosa di assoluto?
«Mai. No».
E il relativismo non la spaventa?
«Non più. Ci sono delle certezze nella vita: le cose che senti e ti fanno stare meglio, che per te vanno bene, e devi seguire quelle. Il resto è davvero relativo».
Crede che questo modo di pensare sia un tratto comune della cosiddetta Generazione Z, alla quale appartiene?
«Lo è di più l’attivismo, il voler fare sentire la propria voce».
E infatti su Instagram lei ha scritto “2640 non sta zitto. Mai”. In che cosa altro si sente come la sua generazione?
«Io sono nata nel 1995: cioè alla metà esatta del decennio. Non è solo un numero, significa avere visto il mondo prima, e quello dopo. Quando è arrivato Facebook ero alle medie».
Starà forse esagerando?
«Ma è vero: WhatsApp io l’ho scaricata in quinta superiore. Ho imparato a usare Instagram da mia cugina, che ha due anni meno di me. Quando ho vinto il talent show X Factor, nel 2012, neanche c’era il sito di streaming Spotify. Comunque non bisogna dare per scontato che tutti i miei coetanei usino i social: un sacco di miei amici non lo fanno».
Lei, però, il mondo “lento” non l’ha mica visto.
«Un po’ sì, di striscio. E infatti ne sento la nostalgia».
Come è possibile?
«Perché è il mondo dei miei genitori e di mio fratello, che ha 10 anni più di me. È facile avere nostalgia di qualcosa che sai che avresti potuto vivere. Come la mia mamma, che il walkman l’ha buttato, mentre io ci ascolterei volentieri le sue musicassette di Tracy Chapman. Io ho visto le cassette, i vinili e soprattutto i cd. I film li noleggiavamo, o li registravamo dalla tv».
Torniamo al presente: le molestie sessuali nei confronti delle donne. Nella musica esistono?
«Esistono ovunque. Molte ragazze che conosco hanno vissuto esperienze simili. E nel nostro lavoro tutte hanno subìto qualcosa. Non posso paragonarmi a chi è stata davvero molestata, ma ci sono momenti in cui ti rendi conto che se sei giovane, donna, sai suonare, tutti pensano che non sia possibile. Se scrivi un disco, si stupiscono. E poi c’è ancora tanto “mansplaning”».
Cioè gli uomini che spiegano in modo paternalistico alle donne che cosa dovrebbero o non dovrebbero fare.
«Sì, in tante forme».
Quando qualcuno insinua che non sa suonare, come risponde?
«Non rispondo neanche».
Capita più spesso che lo facciano uomini di che età?
«Intorno ai 50 anni. Loro hanno vissuto in un altro modo. D’altronde per le donne le cose sono cambiate davvero da poco. Le dico questo: io sono super juventina, la squadra femminile della Juve è stra-forte, ma lei ne ha mai sentito parlare?».
Esiste una Juve femminile?
«Esattamente, ma a livello di comunicazione non se ne sa quasi niente. Eppure sempre di calcio si tratta».
Meglio lavorare con gli uomini o con le donne?
«Con nessuno dei due. Gli uomini hanno un tipo di problema, le donne un altro. La componente maschile forse è più difficile da affrontare, perché per gli uomini di quella generazione è ancora inconcepibile pensare alle donne in modo contemporaneo».
Proprio in quel momento, entra nella stanza Andrea Rosi, presidente della Sony, la casa discografica di Francesca. Ascolta la fine del nostro discorso, e accenna al fatto che la sua è un’azienda piena di donne. Perché, sostiene, hanno una sensibilità particolare. Francesca senza il minimo timore si rivolge a lui con sarcasmo: «Presidente, è sessista?». E mentre Rosi risponde no, intendeva dire che le donne sono superiori, io chiedo a Francesca se crede a una superiorità femminile. E lei di nuovo, decisa: «No, siamo uomini e donne, siamo esseri umani e basta»
Credits foto: Getty images e Instagram (@francesca_michielin)
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