Edoardo Leo: Non chiedetemi di smettere
Con il ruolo dello sconclusionato capobanda nel film rivelazione Smetto quando voglio, Edoardo Leo è diventato l’attore da tenere d’occhio nella commedia italiana. Grazia l’ha incontrato alla vigilia dell’atteso sequel e ha scoperto un uomo serissimo. Che ora si prende una pausa del tutto inattesa
È inutile chiedere a Edoardo Leo quale sia la definizione in cui si sente meglio: attore, regista, sceneggiatore, autore. Lui non sopporta le didascalie. Proprio non gli va di essere chiuso in una parola sola, in un un’unica parte. Al punto che ama trasformare la sua faccia, annullandosi nel ruolo che interpreta: nel 2016 lo abbiamo visto in Perfetti sconosciuti e, anche come autore e regista, in Che vuoi che sia. Oggi è protagonista di Smetto quando voglio - Masterclass, nelle sale dal 2 febbraio. Un sequel, insomma. Il film originale, datato 2014, ha avuto un buon successo e ha fatto molto ridere, con la storia surreale di un gruppo di laureati, genialoidi e disoccupati che si inventano una droga, con tutto quel che ne consegue. Leo, 44 anni, è Pietro Zinni, il capobanda: il più sciagurato, divertente, inguaiato.
Dunque, Leo, si è lasciato sedurre dalla tentazione del sequel, una scelta comoda, ma anche scivolosa.
«Una scelta convinta. Smetto (così Leo chiama il film, ndr) è un’operazione che mi appare sempre più affascinante, sempre più pop, irresistibile e travolgente come un fumetto. Essere a capo di una banda è una cosa che sognavo da bambino. E quindi ho accettato il sequel con l’entusiasmo di chi sa che sta lavorando a un progetto unico e sta interpretando un personaggio che gli rimarrà appiccicato addosso. Ovviamente ho detto sì, dopo aver letto la sceneggiatura che mi è sembrata ancora più bella e travolgente della prima».
Il che non è così usuale: di solito le riproposizioni di un successo sono deludenti.
«Vero, ma qui è tutto al contrario. Ci sono più azione, più forza».
Comunque è rischioso per un attore avere una parte “che gli si appiccica addosso”.
«Smetto non è una serie tv, il rischio è relativo. E poi il mio è un personaggio bellissimo. Sono felice che non mi si sganci di dosso per un po’, mi fa compagnia. E poi gli vorrò sempre bene: è il primo ruolo che mi ha permesso una candidatura come miglior protagonista ai David di Donatello».
Le assomiglia?
«Proprio per niente. E questo è il bello del mio mestiere: il gusto di trovarti dentro esistenze molto distanti dalla tua. Per esempio, Pietro ha una caratteristica che è lontanissima da me: fa battute inopportune nei momenti sbagliati, cerca di alleggerire quando una situazione è seria, fa il buffone quando il momento è drammatico. Una cosa che al cinema funziona, ma nella vita vera è insopportabile. Almeno per me».
Magia della commedia: farci ridere delle nostre miserie. E sorridere di cose che, nella realtà, detesti.
«Infatti. È proprio questa la forza del cinema. Ma Smetto ne ha anche un’altra. È un film d’azione che porta tutto a un alto livello spettacolare. E poi i protagonisti sono molto distanti dalla classiche maschere: non sono i soliti cialtroni. Sono intelligenti, laureati, competenti, evoluti».
I nuovi disadattati, insomma. Lei lo ha detto più volte: la commedia deve essere feroce.
«Sì, lo ammetto, io non voglio rendere mansueto il pubblico, mi piace scuoterlo. Soprattutto come autore e regista, due ruoli in cui fai davvero film che ti assomigliano, sono come te. Dicono chi sei».
Lei com’è?
«Alto e basso, bianco e nero. Sono una persona molto seria a cui ogni tanto piace fare il cretino».
Complicato. È l’aggettivo giusto?
«Direi piuttosto curioso. Sono insaziabile di tutto: cinema, musica, storie, sono sempre alla ricerca di qualcosa. Mi piacciono da matti quelle persone che ti avvicinano e ti dicono: “Sai che mi è successo?”. E cominciano a raccontare».
Quelli che a molti appaiono molesti?
«Proprio loro. Per me sono una fonte di ispirazione enorme».
Disordinato, notturno, ritardatario, stessi amici, stessa musica. Questo è lei descritto dal suo sito. Altro da aggiungere?
«Ci sarebbe un mondo, ovviamente, il mio mondo. Ma sono una persona molto riservata: sto molto attento a tenere la mia vita e la mia famiglia (la moglie, Laura Marafioti, ballerina e cantautrice, e due figli, Francesco e Anita, 9 e 5 anni, ndr) lontane dai tappeti rossi. Posso essere sincero?».
Ovvio.
«Trovo che sia sbagliato svelarsi. Di un attore bisognerebbe sapere pochissimo, altrimenti la sua vita contamina i personaggi che interpreta. Per questo mi piace cambiare spesso look: barba lunga, barba corta, niente barba. Penso che sia una cosa buona per chi fa il mio mestiere: non connotarsi troppo, rendersi poco identificabile». piace cambiare spesso look: barba lunga, barba corta,
Che cosa fa nella sua vita non precisamente identificata?
«Niente di che. Io mi considero un lavoratore dello spettacolo: tutto qui. La mia vita non è per niente speciale, per questo amo scoprire e raccontare quella degli altri. Non c’è nulla di autobiografico nei film che scrivo, anche se il tono e il senso mi assomigliano molto. Le storie non sono mai mie».
Dove le scrive?
«Ho un ufficio dove vado ogni mattina, come fanno tutti. Vado, mi siedo alla scrivania, scrivo. Se non ho l’ispirazione, scrivo lo stesso. Primo o poi arriverà e voglio che mi trovi al lavoro. C’è molto poco di affascinante nell’esistenza che conduco».
Forse si sta sminuendo un po’ troppo.
«Non mi sminuisco, sono uno che lavora seriamente, sempre molto concentrato. Dico solo che non c’è niente di eroico in quello che faccio. La scrittura è anche allenamento. E tenacia. Bisogna continuamente cercare le storie. Per una che va bene, ne butto via una decina».
Tutte storie degli altri.
«Sempre. Le mie le tengo per me».
Ce ne è una in arrivo, dopo Smetto?
«Ci sarà Smetto 3. L’ho detto: è una saga meravigliosa e io sono felice di farne parte».
Film scritti da lei?
«Ho deciso di prendermi una pausa, ho lavorato troppo e voglio riordinare le idee. Voglio capire da che parte andare. Sto per compiere 45 anni, è un’età importante. Cominci a sentire che non hai più tutto il tempo del mondo e vuoi usarlo bene. Adesso so che il tempo della vita è quello che è, dunque mi prendo una pausa. Bisogna sapersi fermare, ogni tanto».
“Smetto quando voglio”, appunto.
«Sì, l’ho preso alla lettera».
© Riproduzione riservata