Beppe Fiorello: «Stavolta mi faccio desiderare»
Come il chitarrista che interpreta nel suo ultimo film, Beppe Fiorello vorrebbe sparire per vedere se qualcuno si accorge della sua mancanza. Perché, dice a Grazia, un vero attore non si ferma mai a metà: o decide tutto lui (magari anche al Festival di Sanremo) oppure se ne va.
Beppe Fiorello chiude il nostro incontro con una frase che dovrebbe mandare tutto a monte: «Nelle interviste non bisogna mai dire la verità». Il che significa: ho buttato un’ora della mia vita, stando ad ascoltare risposte che sono in realtà menzogne. La cosa dovrebbe seccarmi alquanto se non fosse che io, a questa frase, non credo. E penso che sia probabilmente l’unica bugia in un fiume di parole. Penso anche che Beppe, da bravo attore, stia solo cercando un colpo di teatro. Soprattutto quando provoca dicendo: «Inviti le sue lettrici a rileggere tutta l’intervista pensando che non è vero niente. È un modo divertente per chiudere un pezzo, non crede?». Non credo, no.
Penso, piuttosto, che Fiorello, 48 anni, abbia legittimamente bisogno di una strategia di sopravvivenza per reggere il tour de force della promozione (interviste, incontri, set fotografici) del suo ultimo lavoro: Chi m’ha visto, diretto da Alessandro Pondi, con Pierfrancesco Favino e Sabrina Impacciatore, nelle sale il 28 settembre. «È un film che ho voluto al punto da decidere di produrlo», dice Beppe. «È la storia di Martino, un bravissimo musicista di provincia, uno che da sempre fa da spalla a rockstar molto famose, sta sul palco, suona meravigliosamente e nessuno lo vede. La sua è una vita nelle retrovie. E Martino tira avanti fra rabbia, risentimento, dolore per il suo talento non riconosciuto».
Ognuno trova in un film, come in un libro, quel che gli pare. Lei, in Chi m’ha visto, che cosa ha scoperto?
«Qualcosa che conosco bene. Di più: qualcosa che conoscono tutti. Compreso lei, scommetto. Le è mai capitato di aver voglia di sparire? Ha mai pensato:
“Basta, mi dissolvo nel nulla. Poi vediamo se qualcuno sente la mia mancanza e si accorge che io, prima, c’ero”? Martino decide di farlo davvero: sparire. Per diventare protagonista della propria vita».
Ma lei, Beppe, non ha certo bisogno di rendersi invisibile perché qualcuno si accorga della sua presenza. Oppure sì, ne sente la necessità?
«Quasi tutti i giorni».
Di che cosa ha bisogno esattamente?
«Di quella che io da ora in poi chiamerei: pausa di sparizione. Un nuovo antidepressivo: la possibilità di non essere visti. E non credo che valga solo per chi fa un mestiere come il mio, sempre sotto lo sguardo di tutti. Viviamo in un’epoca in cui se non ti vedono, non esisti. Se non posti online, non hai un posto nel mondo. Se non mostri quello che hai nel piatto è come se non avessi mangiato. Se non ti fai un selfie durante un viaggio, è come se non ti fossi mosso da casa. Viviamo immersi nella paura di non essere visti. Come se la mancanza di uno sguardo esterno fosse una condanna a non esserci. Io propongo una terapia: sparire. Anche solo per 10 minuti al giorno».
Terapia d’urto.
«Guardi che il mio film non è filosofico. È una commedia lieve, divertente, un modo sottile per dire cose toste».
Diceva che è una sfida.
«Sì. Sfido un sistema, un malcostume tutto italiano, che preclude il cinema a chi fa fiction televisive. E invito il pubblico che mi segue in tv a sostenermi in questa battaglia contro un pregiudizio stupido. Che penalizza gli attori. E anche il cinema».
Lei in questo film è un antieroe. Un ruolo opposto a quelli che porta in tv: personaggi che hanno fatto la storia del nostro Paese. Eroi veri.
«Anche Pierfrancesco Favino fa una cosa inedita: ha un ruolo comico. Una sfida anche per lui»
Basta personaggi tosti, per lei?
«Al contrario: ne sto studiando di nuovi. Io devo tantissimo alla televisione. E le riconosco un ruolo importante: è praticamente l’unico schermo in cui, oggi, si vedono produzioni di denuncia sociale. Certi argomenti, certi personaggi, certe tragedie al cinema non ci vanno».
Si è diffusa la notizia che in tv condurrà pure il prossimo Festival di Sanremo.
«Smentisco. Non ne sapevo niente. Ho letto anch’io questa bufala sui giornali. La realtà è che già altre volte sono stato contattato per una partecipazione al Festival, ma ho sempre detto: “No, grazie”. Almeno: “Non così e non ora”».
Se non ora, quando?
«Quando e se potrò fare un Sanremo tutto mio, deciso da me, tagliato su di me. Anche come direttore artistico. Fra qualche anno magari, chissà. Adesso la mia attenzione è altrove».
E poi c’è quella tentazione: sparire. Così contraddittoria con la professione che si è scelto.
«Lo ammetto».
Anni fa, in un’intervista, mi ha raccontato che le piaceva scrivere minuziose cronache della sua vita per lasciare un ricordo di sé ai suoi figli. Lo fa ancora?
«Meno ossessivamente. Mi segno appunti, pensieri. Credo che questo bisogno di lasciare tracce di me sia dovuto al trauma che avevo vissuto dopo la morte di mio padre, che è mancato presto. Lasciando un
È ancora così grande quel dolore?
«Sempre. Il suo è, e sarà sempre, lo sguardo che mi manca in tutte le cose che faccio. In ogni successo, in ogni sofferenza o gioia, mi mancano gli occhi di mio padre. Anche se adesso ho quelli indispensabili dei miei figli (Nicola, 12 anni e Anita, 14, ndr). A loro devo molto di quello che sono oggi».
E per loro vuole fermarlo sulla carta, scriverlo.
«Ho questo desiderio enorme di lasciare un buon ricordo di me. Che non vuol dire raccontare la favola dell’uomo perfetto. Non lo sono. Voglio che sappiano chi sono davvero: uno con un carattere terribile. Intransigente. A volte troppo duro. Il bianco e il nero. Molto nero».
In quasi tutte le interviste sostiene che lei non sa parlare d’amore. Non è ora di imparare?
«La stupirò dicendo che finalmente l’ho imparato. L’ho fatto perché ho capito che il tempo passa e l’occasione di dire certe cose a chi ami può non esserci più. Mi ha aiutato molto mia moglie (Eleonora Pratelli, ndr). Stiamo insieme da quasi 18 anni. È già una vita».
È ancora e sempre ossessionato dalla sua forma fisica?
«Non è una questione di look. Mi rassicura tenere in salute il mio corpo. E saperlo sempre in movimento. È un modo per stare bene anche con la testa. Mettermi in moto vuol dire scaricare tensione, stress e ansie».
Effettivamente ci sono pensieri che fanno solo male, tossici.
«Anche le interviste possono essere tossiche, sa?».
Ce l’ha con me?
«No, dico in generale. Se tu passi da una domanda all’altra per un giorno intero, alla fine hai le vertigini. È come trascorrere ore davanti allo specchio, fermo a fissare un’immagine di te. Un uomo che magari in quel momento detesti».
È la stampa, bellezza.
«Ammettiamolo: fra i giornalisti c’è chi, e sono tanti, si ostina a fare domande moleste. Perché i direttori dei giornali sono convinti che alla gente gliene freghi qualcosa di sapere che cosa io mi metto nel piatto la sera».
Eccolo qua, il suo lato intransigente.
«Sono vecchio abbastanza per concedermi il lusso di dire quel che penso. E allora lo dico: non ne posso più del giornalismo gossipparo. Ho altre cose da comunicare al mio pubblico».
E quindi?
«Quindi ho un motto. Lo scriva: mai dire la verità in un’intervista».
Questa è una bugia.
«Può darsi. Chissà»
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