Nel film che sarà presentato alla Mostra di Venezia Adriano Giannini è un uomo in fuga che scopre l’amore grazie a Valeria Golino. «Il cinema mi ha sempre aiutato ad andare altrove», dice l’attore a Grazia. «Ma ora so perfettamente dove voglio stare».
Fuga, ferita, buio, apparenze, sensualità. Cinque parole: la scaletta che ho utilizzato per provare a raggiungere, o almeno avvicinare, Adriano Giannini. L’ho costruita facendogli raccontare il suo ultimo film (Il colore nascosto delle cose, di Silvio Soldini, presentato fuori concorso a Venezia il 7 settembre e in sala dall’8) e segnandomi i termini su cui lui, parlando, aveva premuto l’accento più forte.
Attore e regista, dopo una gavetta durata lunghi anni come operatore cinematografico, Adriano è un figlio d’arte (suo padre è l’attore Giancarlo Giannini, sua madre è l’attrice e regista Livia Giampalmo) a cui non ho nessuna voglia di chiedere come ci si senta in quella scomoda parte. Perché è una domanda che un uomo di 46 anni, che lavora nel cinema da quando ne aveva 18, non merita.
Così come non merita che gli si chieda conto, per l’ennesima volta, 77della sua esperienza cinematografica con la rockstar Madonna, nel remake (datato 2002) del film Travolti da un insolito destino, interpretato nella prima versione del 1974 da Giancarlo Giannini e Mariangela Melato.
Adriano sarà alla 74ª Mostra del Cinema di Venezia a presentare il film di Soldini, dunque la chiacchierata con lui parte da lì. E io comincio prendendo nota di una parola che viene in mente a me, appena lui risponde: voce. La sua è densa come ci si aspetta. Ma più calma del previsto. E, a tratti, divertita, ironica. Una voce che ascolta.

Mi racconti Il colore nascosto delle cose.
«Nel film ho il ruolo di un uomo di provincia, uno che si è fatto da solo, scappato dalla famiglia e costantemente in fuga. Un uomo capace anche di essere brillante, divertito. Uno che ha una fidanzata e un numero imprecisato di amanti, uno che se la gode, ma sa bene che, da qualche parte dentro di sé, ha nascosto la sua ferita. Durante una visita in un luogo speciale, dove si cammina nel buio, incontra una donna non vedente (interpretata da Valeria Golino, ndr) e scommette con gli amici che riuscirà a sedurla. Poi, quello che doveva essere un gioco, diventa un incontro vero. Speciale. Dove le apparenze non contano, dove i codici dell’amore e della sensualità sono tutti diversi».
Il suo racconto comincia con la parola fuga. Lei sa che cosa si prova a vivere scappando?
«Sì. La fuga ha fatto, anzi, fa parte della mia vita. Non a caso ho voluto questo lavoro: il cinema mi aiuta anche a vivere altrove. Quando facevo l’operatore ancora di più. Usavo il mio mestiere per fuggire da Roma e dalla vita reale. Scappavo dall’altra parte del mondo, quando non riuscivo più a star dentro alla vita».
E oggi?
«Oggi so che bisogna anche imparare a tornare. È necessario cercare di fermarsi e provare a costruire. Ma mentirei se le dicessi che il mio bisogno di andare è esaurito, oppure risolto. No, non lo è ancora».
Da che cosa scappava?
«Dal dolore. La mia famiglia ha vissuto una grande tragedia quando io avevo 17 anni (il fratello di Adriano, Lorenzo, è morto a vent’anni, nel 1987, per un aneurisma, ndr). A 18 ero già altrove, a lavorare come operatore. Ho provato a uscire dalla sofferenza, ho cercato di curare questa ferita, costruendomi una professione. Scappavo sì, ma cercando di andare da qualche parte. Alla fine penso mi sia andata bene, avrei potuto prendere strade molto sbagliate».
Anche lei sa che cosa sia il buio.
«Sì, mi ci sono trovato anch’io. Ma sono qui».
È tornato a casa?
«Letteralmente. Oggi vivo a Roma, nella casa in cui sono nato e cresciuto».
Lei riesce ad andare al di là delle apparenze, come i protagonisti del suo ultimo film?
«Ci provo. Provo sempre a capire chi sia l’altro, al di là di quello che vedo. Credo sia necessario farlo con tutti: genitori, amanti, amici. Guardare dentro e vedere che cosa c’è».
O meglio: chi c’è.
«La protagonista non vedente del film insegna che esistono codici diversi per conoscersi: il tatto, l’olfatto, la capacità di percepire l’altro in modi sconosciuti. Le mani vedono. E possono costruire una sensualità diversa, più profonda, più intima».
È una capacità conosciuta sul set, che si è portato anche nella realtà? Adesso è capace di altri codici?
«No, non è così facile il passaggio da un mondo all’altro. Però ci provo ad andare oltre le apparenze».
Quanto tempo restano con lei i personaggi che interpreta?
«Il tempo delle riprese, poi se ne vanno. Tranne in rari casi».
Quali?
«Per esempio il ruolo di Boris Giuliano (il commissario di polizia ucciso dalla mafia nel 1979, ndr). Per interpretarlo nella fiction che Rai Uno gli dedicato lo scorso anno, ho conosciuto il suo mondo, la sua famiglia, i suoi affetti. Sono rimasto legato a quella storia e a quelle persone: sono tornato a trovarli, li penso ancora. Ho sentito la responsabilità di dare corpo a un uomo vero, che aveva avuto e ha una famiglia vera. Gente che lo piange ancora».
Lei una famiglia tutta sua la vuole?
«Sì, ma se aspetto ancora un po’ non l’avrò mai. Vorrei dei figli, più di uno».

Di che cosa è fatto questo suo desiderio?
«Di normalità. È come per tutti, no?».
A che punto è con la costruzione di questo sogno?
«Molto indietro».
Lei è timido?
«Sì».
Attore e timido. Una contraddizione di termini?
«Assolutamente no. Ne conosco tantissimi. Anche mio padre è timidissimo. Credo che questo non sia un limite per chi recita, ma una risorsa: il pubblico avverte questa cosa, la sente. E prova empatia, si lascia coinvolgere. La timidezza ti fa sentire uno come gli altri, uno vero».
Mi dica una cosa, professionale, che le ha insegnato suo padre.
«La serietà, il rispetto profondo per questo lavoro. Ma anche l’umorismo, l’autoironia. Grazie a lui so che è indispensabile non prendersi troppo sul serio. Bisogna lavorare sodo, studiare bene. E poi essere anche un po’ irridenti, per niente supponenti».
Una dote umana che ha imparato da lui?
«La lealtà».
Il cinema per lei è stato solo una via di fuga?
«Per molti anni è stato anche una magia. Era un mondo molto diverso da quello di oggi».
Perché, oggi com’è?
«Meno magico. Forse anche meno creativo. Ci sono poche risorse, pochissimi investimenti. E questo si sente. E si vede».
È più facile stare di qua o di là della macchina da presa?
«Ho fatto così a lungo l’operatore che per me il passaggio è stato quasi naturale. Girando le scene ho imparato tantissimo, perché ero nel ruolo in cui converge il lavoro di tutti: quello del regista e quello dell’attore. Io stavo nel mezzo ed era bellissimo. Da dietro la macchina vedi tutto, capisci tutto».
L’operatore è un ruolo in cui, però, un giorno lei ha fatto un errore madornale.
«Madonna».
No, non alludevo al film con Madonna, ma a quello con Cate Blanchett, Il talento di Mr. Ripley.
«Lo so: il mio era solo un grido di dolore. Non posso pensare a quell’episodio, ancora adesso mi fa sentire male, anche se sono passati otto anni. Ho girato un’intera, lunghissima, scena completamente fuori fuoco. Così una troupe di 500 persone ha dovuto rifare tutto da capo. Volevo sparire per sempre dalla faccia della Terra, non tornare mai più».
Si è mai perdonato?
«Sì, sono qui».
Per ora. Davvero, l’istinto alla fuga è ancora con lei?
«Secondo lei è una cosa che può succedere? Può andarsene per sempre e definitivamente?».
No, secondo me, no.
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