Veronica Pivetti: «L’amore non mi interessa»
A 50 anni Veronica Pivetti è a una svolta: esordisce alla regia e si prepara
a entrare in una nuova casa, dopo che un rogo ha bruciato la sua. A Grazia l’attrice racconta di questa seconda vita e dell’unica cosa alla quale ha voltato le spalle, forse per sempre
Quattro cani, decine di faldoni che contengono i documenti del suo primo film da regista, Né Romeo né Giulietta (nelle sale), un’energia incontenibile e addosso una maglia bruciacchiata che ricorda, come un cimelio di guerra, lo spaventoso incendio che nel maggio 2014 ha distrutto la sua casa «e in pochi minuti i ricordi di tutta la vita»: l’attrice Veronica Pivetti, 50 anni, mi accoglie nel suo regno provvisorio, l’appartamento della sceneggiatrice Giovanna Gra, in cui abita da un anno e mezzo. «Non si formalizzi, somiglia a una comune degli Anni 70», mi avverte sorridendo. Sulla porta c’è scritto “Pigra”, l’ironico nome dato alla società di produzione fondata da Veronica e Giovanna. «Una casa nuova l’ho appena trovata», mi spiega l’attrice, «ma mi dispiacerà lasciare questo rifugio in cui mi sono portata dietro quel poco che mi era rimasto: i cani, un pigiama, due maglie. Ho imparato l’essenzialità: sa che oggi faccio fatica a comprarmi dei vestiti?».
Sono qui perché Pivetti, popolarissima nei panni dell’insegnante-detective della serie Rai Provaci ancora Prof! (presto si girerà la settima stagione), ha diretto il suo primo film, appena uscito. «Ci abbiamo messo tre anni a realizzarlo, incontrando difficoltà di ogni tipo», mi rivela.
Né Romeo né Giulietta ha per protagonista un adolescente (il giovane attore Andrea Amato) che un giorno rivela alla famiglia la propria omosessualità. E non sono affatto scontate le reazioni della madre giornalista progressista (Pivetti), del padre psicoanalista narciso (Corrado Invernizzi), della nonna nostalgica mussoliniana (Pia Engleberth), a sorpresa la più aperta di tutti. Turbamenti, ribellioni, passioni e il diritto di esprimere la propria sessualità vengono raccontati in chiave di commedia in un film addirittura patrocinato dall’organizzazione umanitaria Amnesty International. Salopette jeans, capelli indomabili trattenuti da una fascia, corpo snodato da folletto, Veronica mi racconta la sua nuova sfida. Parla, s’infervora, ripercorre la sua vita «baciata dalla fortuna ma anche funestata dall’invidia degli altri». Così sincera e coinvolgente che fatico a starle dietro.
Che cosa l’ha spinta a parlare di omosessualità giovanile?
«Mi sono ispirata alla storia vera del figlio di una mia amica. Ma il film non è una denuncia né un manifesto. Chi sono io per dare lezioni? Ho raccontato con la massima normalità uno spaccato di vita in questo Paese retrogrado, in cui l’omosessualità è ancora considerata un’anomalia o un dramma».
Se avesse un figlio che le rivelasse di essere gay, come reagirebbe?
«Non riuscirei proprio a considerarlo un problema. Gli augurerei di essere felice e realizzato».
Le dispiace non essere diventata madre?
«Nemmeno per sogno. Mai avuto l’istinto materno. Ho i cani e un figlio, in qualche modo, l’ho fatto: è il mio film da regista».
Va d’accordo con i figli di sua sorella Irene Pivetti, 52, ex presidente della Camera ed ex conduttrice tv?
«Adoro i miei nipoti. Ludovica ha 17 anni, Federico 16 e mi cercano quando hanno voglia di confidarsi».
A proposito di famiglia, si è spesso parlato di una sua rivalità con Irene che, lasciata la politica, entrò nel mondo dello spettacolo.
«Ma è una balla colossale. Mia sorella (che oggi si occupa di imprenditoria, ndr) e io ci vogliamo molto bene anche se siamo completamente diverse. Non ho mai votato per il suo partito originario, la Lega Nord, però sono rimasta stupita quando ha lasciato la politica: era bravissima. E quando ha deciso di lavorare in tv non ho fatto una piega. Lo spettacolo è un mondo affollatissimo, perché avrei dovuto sentirmi in competizione proprio con lei?».
È contenta della sua vita, Veronica?
«Sì, oggi sono serena e piena di progetti: riprenderò il teatro, tornerò sul set in tv e aspetto l’esito del mio film, la prima impresa di cui sono del tutto responsabile. Ho definitivamente superato la grave depressione di cui ho sofferto dai 36 ai 42 anni e che ho raccontato con autoironia nel libro Ho smesso di piangere».
Come ne è uscita?
«Con l’aiuto dei medici e della recitazione. Nella fase più acuta lavoravo come una pazza, giravo le fiction Il maresciallo Rocca e Provaci ancora Prof! Avevo una doppia vita: di giorno sul set, la sera in casa a disperarmi. Ma è passata e oggi sono felice di poterlo raccontare».
Ha un amore?
«No, da 15 anni sono serenamente single. Ho commesso abbastanza errori da non sentire più la mancanza di un compagno. Sono piena di interessi e l’amore non rientra tra questi. Voler stare in coppia è una devianza culturale che, purtroppo, accomuna tutte le donne».
È proprio sicura che sia una devianza? Un marito l’ha avuto, l’attore Giorgio Ginex, e poi ha amato un personaggio del cinema.
«Con Giorgio sono stata fidanzata quattro anni, poi sposata e ci vogliamo ancora bene. L’altra storia non era amore, ma un frutto della mia sprovvedutezza. La vera passione è il lavoro, che mi ha permesso di mantenermi fin da bambina: con i doppiaggi ho iniziato a 7 anni».
Le è dispiaciuto essere considerata una raccomandata quando ha avuto i primi successi?
«Non immagina quanto. Negli Anni 90 si sono accorti di me perché ero la sorella della presidente della Camera, non lo nego, ma se non avessi avuto talento, sarei tramontata presto. Sono stata oggetto di un’invidia feroce: ai tempi in cui lavoravo a Quelli che... il calcio in tv molti colleghi non mi salutavano e trovavo insulti nella segreteria telefonica».
E oggi a che cosa attribuisce il successo della serie Provaci ancora Prof?
«Il mio personaggio, Camilla Baudino, non rinuncia a nessuna delle sue passioni: l’insegnamento, le investigazioni, la famiglia, l’amore. È un bellissimo messaggio, una risposta alla barbarie di una società in cui le donne, a differenza degli uomini, sono sempre costrette a scegliere. Il pubblico femminile mi adora».
Come lo spiega?
«In me le spettatrici si identificano. Non sono un modello irraggiungibile, ma una donna normale, spesso sfortunata, che lotta per sbocciare».
Veronica mi mostra poi alcuni disegni autografati del mimo Lindsay Kemp. «Me li ha mandati quando gli ho scritto che l’incendio aveva distrutto il manifesto di un suo spettacolo al quale tenevo tanto», mi spiega. «Saranno la prima cosa che entrerà nella mia nuova casa. Non penso al passato, guardo al futuro». Lascio la “comune” facendole tanti auguri.
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