Storie in gioco: il talento ispiratore di quattro giovani gamer italiane

Campioni virtuali diventati influencer globali. Eventi in diretta con milioni di spettatori. Sfide online portate anche alle Olimpiadi. I videogiochi sono uno spettacolo che ha superato cinema, musica e tv. Ora le sue star ci guidano in un nuovo universo che presto accoglierà tutti noi. Grazia ha intervistato quattro gamer italiane e ne racconta la realtà
Gamer italiane

Qual è oggi la più grande industria dell’intrattenimento globale? Non la musica, non il cinema e nemmeno lo streaming tv. In questo momento in cima alla classifica c’è il mondo dei videogiochi.

I videogame oggi sono avventure complesse che generano miliardi di euro alle case che li producono, ma sono anche il volano per le carriere dei giocatori digitali che guadagnano milioni partecipando a tornei dai ricchissimi montepremi oppure trasmettendo sul web in diretta le loro partite. I gamer più seguiti sono diventati veri e propri influencer globali perché non si accontentano di giocare a Fortnite, Minecraft, League Of Legends, Call Of Duty - per citare solo i giochi più famosi - ma creano contenuti originali trasmettendo in diretta su piattaforme come Twitch, una sorta di YouTube per lo streaming dal vivo. 

Dall’Europa all’Asia fino al Sudamerica i giocatori oggi sono circa 920 milioni, di cui 15 milioni in Italia. Nel nostro Paese i videogame hanno dato vita a carriere uniche e speciali. 

Federica Campana

Federica Campana

Federica Campana (nella foto sopra) ha 28 anni ed è una gamer. Cresciuta a Napoli, Maeve Donovan (questo il nome con cui è conosciuta “in game”, un omaggio a un personaggio della serie tv Criminal Minds) ha incontrato per la prima volta il mondo dei videogiochi grazie alla zia. «Aveva una PlayStation a casa. Ogni volta che andavo da lei mi facevo una partita di Formula 1», racconta. Quando tornava a casa, però, si dedicava a giochi più “tradizionali” insieme alla sorella, a un cugino e due cugine. «Eravamo quattro femmine e un solo maschio. Io però spalleggiavo mio cugino per la scelta delle attività: le altre femmine volevano giocare a “mamma e figlie” ma noi spingevamo per il calcetto». 

Tra i suoi sogni da bambina c’era quello di fare la “suora-maestra”. Perché? «Ho fatto le scuole elementari dalle suore. Volevo diventare come loro e fare l’insegnante. Poi, col passare degli anni, ho capito che avrei voluto fare solo la maestra: non avevo considerato tutti i fattori in gioco», scherza. Ma questo suo ingresso particolare nel mondo dell’istruzione non l’ha aiutata nei suoi passi successivi. «Quando sono arrivata alle medie statali non ero abituata a un ambiente così… libero. Così, ho fatto molta fatica ad ambientarmi». Un momento che ancora oggi ricorda come il più difficile della sua vita. «Se c’era qualcuno da prendere come bersaglio ero io».

Per Federica Campana il colpo di fulmine legato al mondo dei game, però, è arrivato mentre studiava in università. E ha avuto il sapore di una rivincita. «Gli amici che frequentavo giocavano. Mi sono riavvicinata a tutto quel mondo in modo nuovo ed estremamente competitivo. In poche settimane ho capito che volevo essere la prima del gruppo». Una volta conquistato questo titolo ha allargato sempre più il suo orizzonte. «Quando mi sono fatta conoscere a Napoli ho deciso di puntare all’attenzione nazionale. Così mi sono iscritta al mio primo “vero” torneo live a Francavilla. Lì sono arrivata tra i primi 30 su circa 250 persone».

Da lì, Maeve Donovan è diventato un nome di spicco nell’universo degli esports. In particolare di Hearthstone, videogioco di carte collezionabili, spin-off della celebre saga dei videogiochi Warcraft. «Dopo quel torneo mi hanno invitata a far parte di un importante gruppo (il Team QLASH, ndr) e insieme a loro sono andata in giro per il mondo per tre anni». L’elenco dei paesi è notevole: dal Nord dell’Europa fino al Texas e alla Corea del Sud. «Era il 2017 e in Italia non c’era ancora questa cultura. Siamo stati tra i primissimi italiani a partecipare a tornei internazionali. Io ero l’unica ragazza».

A proposito di questo, non le sono mancati episodi in cui si è sentita discriminata in quanto gamer donna. «Un negozio di Napoli organizzava piccoli tornei per poter vincere delle carte. Una volta arrivai in finale e mi trovai di fronte un ragazzo che, vedendomi, disse: “Se perdo questa, non mi presento più”. Lo ha detto in maniera leggera, ma non mi ha fatto piacere». Ça va sans dire: le carte se le è portate a casa proprio lei. Generando un forte imbarazzo nello sfidante. «Non si è più presentato e solo dopo si è scusato per la frase. Non è stato bello. Però io ho sempre trovato forza nel sentirmi l’unica donna in un contesto pieno di uomini. Ho sempre voluto dimostrare che non esistono solo loro. Per farlo, però, devi tirare fuori tutto il carattere di cui disponi».

Con l’arrivo del Covid-19, anche l’organizzazione di tornei internazionali in presenza ha subìto una battuta d’arresto. «Ora mi sono trasferita a Bolzano insieme al mio ragazzo (conosciuto grazie alla passione comune per i videogiochi, ndr) e sto giocando sempre meno competitivamente. Ma spero di poter riprendere. Prima dell’arrivo della pandemia mi ero qualificata per un torneo a Bali, poi sospeso».

A tifare per lei c’è soprattutto la sua famiglia che, agli inizi, faticava a comprendere questa sua carriera. «Non ci scontriamo più. Anzi, ora sono loro a chiedermi quando avrò un nuovo torneo. Le mie nonne sono le mie prime tifose».
Testi di Giovanni Ferrari

Fjona_Cakalli

Fjona Cakalli

Tra i tanti messaggi che riceve dai suoi follower, Fjona Cakalli (nella foto sopra) cita, tra i suoi preferiti, quelli di alcuni padri che le hanno scritto: «Vorrei che da grande mia figlia diventasse una donna libera come te».

Blogger, presentatrice TV, tech influencer, YouTube creator e imprenditrice digitale – secondo le definizioni che lei stessa usa sul suo sito – Cakalli, 34 anni, nata a Tirana e cresciuta in Italia, ha iniziato la sua avventura online poco più di dieci anni fa. Con un sito, Games Princess, dedicato ai videogiochi e curato solo da ragazze che, nel 2013, è diventato Tech Princess, un canale YouTube sul quale parla anche di smartphone, tablet, gadget e così via. Più The Driving Fjona, altro canale nato nel 2014 dal suo amore per le automobili. Tutti argomenti, insomma, che una volta sarebbero stati considerati «da maschi».

Da dove arriva la sua passione per la tecnologia?
«I miei genitori erano primi ballerini dell’Opera di Tirana. Nel 1991, mio papà stava seguendo un corso di specializzazione per diventare direttore del corpo di ballo al teatro alla Scala di Milano e faceva avanti e indietro tra Italia e Albania. Un giorno arrivò a casa con un Nintendo NES. Per comprarlo aveva messo da parte un po’ di soldi alla volta. Non conosceva neppure il termine “console”. Ci disse: “Questo è un computer. In Italia ci giocano tutti”».

È stato amore a prima vista?
«Sì. Ma la ragione per cui me ne sono innamorata è che era un modo per divertirci insieme. Con mamma e papà passavamo ore sul divano a giocare. Erano momenti felici».

I vostri primissimi videogiochi?
«Super Mario e Solomon’s Key, che era più complicato e in inglese, lingua che nessuno di noi conosceva. Andavamo per tentativi, imparando dai nostri errori. Ancora oggi, questi vecchi videogiochi sono tra i miei preferiti e ogni tanto mi diverto a riprendere quelli che da bambina non riuscivo a finire. Come The Legend of Zelda che, allora, mi sembrava lunghissimo e complicatissimo».

Quando vi siete trasferiti in Italia?
«Quello stesso anno come tantissimi altri albanesi. Il Paese era allo sbando e la gente sperava di trovare altrove un futuro migliore. Non avevamo niente di quello che da voi era normale. Quando papà veniva a Milano, i suoi amici italiani gli preparavano pacchi di caramelle e cioccolatini perché da noi erano introvabili».

Quanti anni avevano i suoi genitori quando hanno lasciato l’Albania?
«Trentadue. Mio papà conosceva l’italiano, mia mamma no. Non sapevano che cosa avrebbero trovato. Ma guardavano i programmi della Tv italiana e l’immagine era quella di un mondo bello, “luccicante”. Per loro L’Italia era l’America».

Il confronto con la realtà, invece, com’è stato?
«Non facile. La nostra nazione era completamente chiusa al resto del mondo, tanto che molti non sapevano della caduta del muro di Berlino. Nei primi anni, mamma e papà si sono dovuti adattare a fare diversi lavoretti e più volte hanno avuto la tentazione di tornare indietro. Man mano, però, la situazione è migliorata. Non hanno mai ripreso a danzare, ma sono diventati insegnanti di ballo».

Lei che ricordi ha?
«Da piccola, mi chiamavano: “Albanese di merda”. Mi sentivo diversa. In tutti i sensi. Se dicevo a mia mamma: “Non vado a scuola perché è Pasqua”, mi rispondeva: “E che cos’è?”. Sotto il comunismo la religione era stata abolita, davvero non aveva idea di che cosa fosse. Da bambina sono cose difficili da accettare. E, a casa, non potevo neppure lamentarmi per le prese in giro, gli insulti».

Perché?
«Mi rendevo conto che per loro era ancora più complicato. Toccava a me aiutarli: a leggere le bollette, a parlare nei negozi, perché io sapevo la lingua. Avevo solo 15, 16 anni, ma quando andavamo a rinnovare il permesso di soggiorno, mi facevo avanti con i poliziotti per evitare che li trattassero male. Tanti ragazze e ragazze hanno vissuto esperienze simili: vivi in due mondi paralleli, ti senti italiano come gli altri ma, a casa, le usanze sono diverse. Solo da grande capisci che è un plus, non una mancanza».

Tornando ai videogiochi, perché a lungo sono stati considerati per maschi?
«Fino a non molto tempo fa, nei negozi, li trovavi sono sugli scaffali dei giochi per i bambini. I miei genitori non avevano preconcetti semplicemente perché non sapevano che ci fosse una differenza».

Quando ha scoperto che potevano diventare una professione?
«Lavoravo come commessa ma, seguendo l’esempio dei miei che avevano fatto della loro passione un lavoro, mi sono detta: “Non sono una programmatrice, però mi piace comunicare con gli altri, raccontare le mie esperienze”. È così che ho scoperto l’esistenza dei blog».

Ed è nato il suo primo sito Game Princess.
«Sì. Ma non mi aspettavo che diventasse una rivista online. È successo per caso, quando alcune ragazze mi hanno chiesto di poter scrivere per me. Lo consideravano un porto sicuro. Dieci anni fa, se una donna parlava di videogiochi, la reazione era: “Che cosa ne vuoi capire?”. Ti sentivi sempre sotto osservazione, giudicata. Ancora oggi, alle presentazioni, agli eventi, mi capita spesso di essere l’unica in mezzo a soli uomini».

Perché ha deciso di dedicarsi anche alla tecnologia e alle automobili?
«Mi hanno sempre affascinato. Dopo quel Nintendo, papà mi aveva comprato un computer vero e, da ragazzina, mentre loro facevano la spesa nel supermercato, io passavo il tempo nei negozi di cellulari a curiosare. Lo stesso per le auto: fin da piccola ho imparato a riconoscere marche e modelli».

Che consiglio darebbe a quei genitori che si preoccupano nel vedere i propri figli giocare on line?
«La rete è come il mondo reale: non sai mai chi puoi incontrare, quindi è giusto fare attenzione. Ma bisogna anche cercare di entrare un po’ in questo mondo, conoscerlo. Quello che dico sempre è: “Provate a giocare con loro”. I videogame non sono solo una perdita di tempo. Si possono imparare molte cose».

Lei che cosa ha imparato?
«Che se hai un’idea, un progetto che ti piace, devi provarci. Fallire non è un dramma. È un po’ come nei videogiochi dove le vite sono infinite: se muori, ricominci da capo».
Testi di Enrica Brocardo

sabrina cereseto

Sabrina Cereseto

L'ultima volta che ho intervistato Sabrina Cereseto (nella foto sopra), cinque anni fa, era già famosa come La Sabri Gamer, aveva  700mila iscritti al suo canale Youtube, pubblicato un libro, La mia vita come un gioco, sui videogame, e a Grazia confessava di passare 18 ore al giorno davanti al computer.

Oggi Sabrina Cereseto, 33 anni, milanese, ha diminuito le ore davanti allo schermo, ma ha aumentato i canali di comunicazione, ne ha due su Youtube, con 2,2 milioni di iscritti, un profilo Instagram da 1,9milioni di follower e un altro su Tik Tok. «In uno parlo della mia passione per i videogiochi e nell'altro di tutto ciò che conta nella mia vita: dall'ambiente all'amore», racconta Cereseto, eletta miss Eleganza nel concorso per Miss Italia del 2008. «Negli ultimi due anni ho raccontato la ricerca di un figlio, che nascerà a ottobre. Però, non ho mai smesso di giocare: appena ho un minuto libero, mi metto sul divano e mi attacco alla console».

Oggi si chiama solo LaSabri e non è il suo unico cambiamento. «A giugno mi sposerò con il mio fidanzato, Alessio Bourcet, noto sui social come Pika Palindromo, un creator come me. Da allora ho scritto altri due libri, Cavolini Il libro della Felicità (Rizzoli editore), scritto con Alessio, ho doppiato 4 film, Lego NinjagoRalph Spacca InternetSiamo solo orsi e Il giro del mondo in 80 giorni. Ale e io abbiamo aperto un canale di coppia su Youtube che si chiama Naz, dove parliamo di cose importanti, come il percorso di fecondazione assistita che abbiamo cominciato un anno fa. Tre mesi di ormoni e punture sulla pancia, per poi scoprire che ero incinta il giorno prima di andare in ospedale per la procedura». 
Testi di Alessia Ercolini

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Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"

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Jodie Foster festeggia al cinema 60 anni da star. Nel thriller Vita privata, da oggi nelle sale, è una psicanalista tormentata. Ma a noi racconta come, grazie alla sua carriera, ha capito che le donne over 50 hanno tutte le carte per vincere

Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.

Che rapporto ha con il passare del tempo?

«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».

Davvero?

«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».

Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.

«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».

Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?

«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».

Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?

«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».

Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…

«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare». 

Come mai?

«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».

Che cosa le disse al ritorno?

«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».

Ha fatto lo stesso con i suoi figli?

«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».

Che rapporto ha con la psichiatria?

«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».

Com’è andata?

«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».

E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?

«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il  corpo».

Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?

«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».

Che cosa di lei non hanno mai capito finora?

«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».


Com’è la sua giornata ideale?

«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».

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Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli

Elena Valzania x Alleanza
L'eredità di famiglia può assicurare un sostegno economico ai propri cari. Basta sottoscrivere una polizza di investimento adeguata, affidandosi a un bravo consulente

Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».

A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.

La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.

Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».

Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela

RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)

1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».

2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni? 
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».

Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com

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«Quanto ti dicono: "se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?"»: l'editoriale di Silvia Grilli

Silvia Grilli
Il nuovo numero di Grazia è ora in edicola. Ecco l'editoriale della Direttrice Silvia Grilli

In una scena di C'è ancora domani, la protagonista Delia, costretta dal marito brutale a un rapporto sessuale, toglie un granellino di polvere dal comodino, completamente estranea a quanto le sta accadendo. La dissociazione è un'autodifesa comune tra le vittime di stupro.

Una ragazza che intervistai mi raccontò che, durante la violenza, cercava di ricordare le parole delle sue canzoni preferite. Era come congelata nel panico: non urlò, non si mosse, terrorizzata di subire ulteriori aggressioni.

Jessica Mann, una delle testimoni al processo contro il produttore stupratore Harvey Weinstein, ha ricordato di essere rimasta immobile, mentre lui la violentava. Mann ha citato in tribunale uno studio scientifico sulle difese messe in atto da esseri umani e animali. Questi ultimi si fingono morti di fronte a un attacco, perché così i predatori sembrano perdere interesse. Ma, per ironia della sorte, è proprio l’immobilità della vittima a mettere in dubbio la credibilità delle donne nei dibattimenti per stupro. «Non si è mossa, quindi vuol dire che ci stava».

Giorgia Meloni ed Elly Schlein hanno voluto una legge per cambiare la vecchia norma, secondo la quale è reato solo se si viene costrette ad atti sessuali con modi violenti o minacce. Le due leader condividono l’idea che il consenso debba essere dichiarato all’inizio e durante il rapporto.

L’atto sessuale deve avvenire per libera scelta, non per ricatto, abuso di potere o quando la volontà è ridotta per effetto di alcol o sostanze. E non è consenso solo perché si era detto «sì» in passato o perché si è sposati. Il silenzio o l’inerzia non sono acquiescenza, ma una conseguenza della violenza stessa. E ci si può tirare indietro, anche dopo aver, inizialmente, condiviso l’approccio.

La legge, nata dal patto Meloni-Schlein, è stata approvata all’unanimità dalla Camera dei deputati. Ma al Senato, nella Giornata contro la violenza degli uomini sulle donne, è stata bloccata e rinviata. Il ministro Matteo Salvini sostiene che «Il consenso preliminare lascia spazio a vendette personali che intaserebbero i tribunali».

Cioè, la magistratura si ritroverebbe con orde di donne che mentono. Sinceramente, non ho mai visto in Italia tutta questa folla di femmine pronte ad accusare per incastrare qualcuno. Sinceramente, mi pare il contrario: le vittime non denunciano perché conoscono bene gli interrogatori e il calvario che dovrebbero sopportare se lo facessero. Sinceramente, mi sembra una bocciatura per paura di perdere i privilegi maschili.

In una scena del film After the Hunt - Dopo la caccia, Julia Roberts dice a una studentessa che accusa un professore di stupro: «Non denunciare, altrimenti diventerai radioattiva. Il nostro sistema è dominato dai maschi. Ne avrai bisogno quando chiederai lavoro, e non lo otterrai perché saranno terrorizzati che un giorno tu possa accusare anche loro».

La notte del weekend scorso, a Milano, una ragazza ha denunciato per violenza un giovane con il quale si era allontanata. «Mi ha violentata», ha detto. «Era consenziente», ha ribattuto lui. Un consenso che fino a un certo punto c’è stato. Poi non più.

Lo stupro non è stupro solo se ti costringono con la pistola puntata alla tempia. Lo è anche quando io non voglio o non voglio più. Vale anche nel caso di rapporti sessuali tra conviventi: solo «sì» è «sì».

Anni fa, un senatore californiano si oppose a una legge contro lo stupro nel matrimonio, dicendo: «Se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?». Ecco, è proprio questo il concetto: né il corpo di tua moglie né quello della ragazza che si allontana con te, poi cambia idea, ti appartengono. Il loro corpo è loro, non tuo.

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GRAZIA presenta il numero straordinario "L'arte è donna" con direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo

cover Grazia 4 dicembre
Questa edizione speciale celebra il talento e il coraggio di artiste, galleriste, progettiste e collezioniste

Grazia, il magazine di Reworld Media diretto da Silvia Grilli, presenta il numero straordinario L'arte è donna. Il talento e il coraggio di artiste, galleriste, progettiste, collezioniste sono il filo conduttore di questa edizione speciale che ha come direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, fondatrice e presidente della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, collezionista e mecenate riconosciuta a livello internazionale.

“Nella storia dell’arte le donne sono state cancellate o relegate al ruolo di mute muse ispiratrici, tagliate fuori dalle scuole, dalle botteghe degli artisti”, dichiara Silvia Grilli, direttrice di Grazia. “Con questo numero abbiamo voluto invece raccontare il talento femminile che c’è e c’è sempre stato, la creatività, pervicacia e abnegazione delle artiste donne, il loro sguardo diverso. Quando ho chiesto a Patrizia Sandretto Re Rebaudengo di curare questo numero di Grazia, ho trovato un’interlocutrice appassionata, capace di raccontare nel modo migliore quel genio che non è appannaggio esclusivo degli uomini”.

“Questo numero speciale contiene storie, opere e luoghi che raccontano la mia vita con l’arte contemporanea, sul filo di una grande passione, un sogno, una visione che seguo e inseguo da oltre trent’anni”, spiega la direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. “Fra queste pagine, quel filo rosso è diventato un progetto a più voci che ha unito le forze per parlare dei cambiamenti del mondo delle donne: artiste, collezioniste, direttrici di musei, architette, scienziate. Nessun separatismo, le storie che abbiamo scelto, insieme con la direttrice Silvia Grilli e lo staff di Grazia, superano la tradizionale categoria di ‘femminile’, nell’editoria così come nell’arte, per portarci in un territorio di ricerca, uno spazio plurale, aperto sul presente, sensibile al diritto all’autodeterminazione, al di là di nascita e appartenenze”.

La copertina del numero è un’opera della pittrice e fotografa polacca Paulina Olowska intitolata Weeds (2017 - Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) che attraverso un nudo femminile - genere che nella storia dell’arte è stato per lo più appannaggio dello sguardo maschile - reclama la propria libertà di espressione.

Per raccontare il suo percorso, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo si è affidata alle domande attente del giornalista Dario Maltese e insieme hanno parlato di arte, emozioni e futuro. Si prosegue poi con Hans-Ulrich Obrist, curatore d’arte e direttore artistico delle Serpentine Galleries di Londra, che intervista per Grazia l’architetta messicana Frida Escobedo, che realizza progetti nati dal suo bisogno di comunicare.

E il mondo scoprì le artiste è invece un’inchiesta approfondita sui grandi talenti dimenticati dalla storia. Pittrici e scultrici hanno infatti dovuto lottare e affrontare una moltitudine di ostacoli che non hanno diminuito il loro valore, ma spesso ne hanno cancellato traccia. Storiche dell’arte e curatrici stanno così adottando nuove strategie per restituire loro visibilità, mettendo in atto una vera e propria rivoluzione creativa.

Anche la moda è in linea con il tema portante del giornale: i bijoux americani degli Anni 30 collezionati da Patrizia Sandretto re Rebaudengo saranno abbinati a look liberi e anticonformisti e avranno come sfondo le opere della pittrice Pia Krajewski. 

Sulle pagine della rivista ci sono poi due artisti che vanno oltre le definizioni di genere, lasciando spazio alle loro visioni: si parla di arte e natura con Jota Mombaça e di linguaggi e inclusione con Diana Anselmo.  

Anche il rapporto tra arte cinema è strettissimo: il grande schermo ha raccontato le vite e il tormento dei geni della pittura e Paola Malanga, direttrice artistica della Festa del Cinema di Roma, ha scelto per Grazia le pellicole da non perdere.

Nella sezione dedicata alla cultura, con la collaborazione della Fondazione Sandretto re Rebaudengo, vengono spiegati i percorsi artistici formativi e segnalate le 10 mostre dell’inverno da non perdere che guidano i lettori e le lettrici in un viaggio di linguaggi diversi.

Infine uno spazio è dedicato anche alle eccellenze mediche al servizio della salute delle donne della Fondazione IEO-MONZINO ETS, di cui Patrizia Sandretto Re Rebaudengo è presidente. A parlare delle conquiste nelle terapie e nella prevenzione decisive per le pazienti sono la specialista di senologia Viviana Galimberti e la cardiologa Daniela Trabattoni.