Storie in gioco: il talento ispiratore di quattro giovani gamer italiane
Qual è oggi la più grande industria dell’intrattenimento globale? Non la musica, non il cinema e nemmeno lo streaming tv. In questo momento in cima alla classifica c’è il mondo dei videogiochi.
I videogame oggi sono avventure complesse che generano miliardi di euro alle case che li producono, ma sono anche il volano per le carriere dei giocatori digitali che guadagnano milioni partecipando a tornei dai ricchissimi montepremi oppure trasmettendo sul web in diretta le loro partite. I gamer più seguiti sono diventati veri e propri influencer globali perché non si accontentano di giocare a Fortnite, Minecraft, League Of Legends, Call Of Duty - per citare solo i giochi più famosi - ma creano contenuti originali trasmettendo in diretta su piattaforme come Twitch, una sorta di YouTube per lo streaming dal vivo.
Dall’Europa all’Asia fino al Sudamerica i giocatori oggi sono circa 920 milioni, di cui 15 milioni in Italia. Nel nostro Paese i videogame hanno dato vita a carriere uniche e speciali.
Federica Campana
Federica Campana (nella foto sopra) ha 28 anni ed è una gamer. Cresciuta a Napoli, Maeve Donovan (questo il nome con cui è conosciuta “in game”, un omaggio a un personaggio della serie tv Criminal Minds) ha incontrato per la prima volta il mondo dei videogiochi grazie alla zia. «Aveva una PlayStation a casa. Ogni volta che andavo da lei mi facevo una partita di Formula 1», racconta. Quando tornava a casa, però, si dedicava a giochi più “tradizionali” insieme alla sorella, a un cugino e due cugine. «Eravamo quattro femmine e un solo maschio. Io però spalleggiavo mio cugino per la scelta delle attività: le altre femmine volevano giocare a “mamma e figlie” ma noi spingevamo per il calcetto».
Tra i suoi sogni da bambina c’era quello di fare la “suora-maestra”. Perché? «Ho fatto le scuole elementari dalle suore. Volevo diventare come loro e fare l’insegnante. Poi, col passare degli anni, ho capito che avrei voluto fare solo la maestra: non avevo considerato tutti i fattori in gioco», scherza. Ma questo suo ingresso particolare nel mondo dell’istruzione non l’ha aiutata nei suoi passi successivi. «Quando sono arrivata alle medie statali non ero abituata a un ambiente così… libero. Così, ho fatto molta fatica ad ambientarmi». Un momento che ancora oggi ricorda come il più difficile della sua vita. «Se c’era qualcuno da prendere come bersaglio ero io».
Per Federica Campana il colpo di fulmine legato al mondo dei game, però, è arrivato mentre studiava in università. E ha avuto il sapore di una rivincita. «Gli amici che frequentavo giocavano. Mi sono riavvicinata a tutto quel mondo in modo nuovo ed estremamente competitivo. In poche settimane ho capito che volevo essere la prima del gruppo». Una volta conquistato questo titolo ha allargato sempre più il suo orizzonte. «Quando mi sono fatta conoscere a Napoli ho deciso di puntare all’attenzione nazionale. Così mi sono iscritta al mio primo “vero” torneo live a Francavilla. Lì sono arrivata tra i primi 30 su circa 250 persone».
Da lì, Maeve Donovan è diventato un nome di spicco nell’universo degli esports. In particolare di Hearthstone, videogioco di carte collezionabili, spin-off della celebre saga dei videogiochi Warcraft. «Dopo quel torneo mi hanno invitata a far parte di un importante gruppo (il Team QLASH, ndr) e insieme a loro sono andata in giro per il mondo per tre anni». L’elenco dei paesi è notevole: dal Nord dell’Europa fino al Texas e alla Corea del Sud. «Era il 2017 e in Italia non c’era ancora questa cultura. Siamo stati tra i primissimi italiani a partecipare a tornei internazionali. Io ero l’unica ragazza».
A proposito di questo, non le sono mancati episodi in cui si è sentita discriminata in quanto gamer donna. «Un negozio di Napoli organizzava piccoli tornei per poter vincere delle carte. Una volta arrivai in finale e mi trovai di fronte un ragazzo che, vedendomi, disse: “Se perdo questa, non mi presento più”. Lo ha detto in maniera leggera, ma non mi ha fatto piacere». Ça va sans dire: le carte se le è portate a casa proprio lei. Generando un forte imbarazzo nello sfidante. «Non si è più presentato e solo dopo si è scusato per la frase. Non è stato bello. Però io ho sempre trovato forza nel sentirmi l’unica donna in un contesto pieno di uomini. Ho sempre voluto dimostrare che non esistono solo loro. Per farlo, però, devi tirare fuori tutto il carattere di cui disponi».
Con l’arrivo del Covid-19, anche l’organizzazione di tornei internazionali in presenza ha subìto una battuta d’arresto. «Ora mi sono trasferita a Bolzano insieme al mio ragazzo (conosciuto grazie alla passione comune per i videogiochi, ndr) e sto giocando sempre meno competitivamente. Ma spero di poter riprendere. Prima dell’arrivo della pandemia mi ero qualificata per un torneo a Bali, poi sospeso».
A tifare per lei c’è soprattutto la sua famiglia che, agli inizi, faticava a comprendere questa sua carriera. «Non ci scontriamo più. Anzi, ora sono loro a chiedermi quando avrò un nuovo torneo. Le mie nonne sono le mie prime tifose».
Testi di Giovanni Ferrari
Fjona Cakalli
Tra i tanti messaggi che riceve dai suoi follower, Fjona Cakalli (nella foto sopra) cita, tra i suoi preferiti, quelli di alcuni padri che le hanno scritto: «Vorrei che da grande mia figlia diventasse una donna libera come te».
Blogger, presentatrice TV, tech influencer, YouTube creator e imprenditrice digitale – secondo le definizioni che lei stessa usa sul suo sito – Cakalli, 34 anni, nata a Tirana e cresciuta in Italia, ha iniziato la sua avventura online poco più di dieci anni fa. Con un sito, Games Princess, dedicato ai videogiochi e curato solo da ragazze che, nel 2013, è diventato Tech Princess, un canale YouTube sul quale parla anche di smartphone, tablet, gadget e così via. Più The Driving Fjona, altro canale nato nel 2014 dal suo amore per le automobili. Tutti argomenti, insomma, che una volta sarebbero stati considerati «da maschi».
Da dove arriva la sua passione per la tecnologia?
«I miei genitori erano primi ballerini dell’Opera di Tirana. Nel 1991, mio papà stava seguendo un corso di specializzazione per diventare direttore del corpo di ballo al teatro alla Scala di Milano e faceva avanti e indietro tra Italia e Albania. Un giorno arrivò a casa con un Nintendo NES. Per comprarlo aveva messo da parte un po’ di soldi alla volta. Non conosceva neppure il termine “console”. Ci disse: “Questo è un computer. In Italia ci giocano tutti”».
È stato amore a prima vista?
«Sì. Ma la ragione per cui me ne sono innamorata è che era un modo per divertirci insieme. Con mamma e papà passavamo ore sul divano a giocare. Erano momenti felici».
I vostri primissimi videogiochi?
«Super Mario e Solomon’s Key, che era più complicato e in inglese, lingua che nessuno di noi conosceva. Andavamo per tentativi, imparando dai nostri errori. Ancora oggi, questi vecchi videogiochi sono tra i miei preferiti e ogni tanto mi diverto a riprendere quelli che da bambina non riuscivo a finire. Come The Legend of Zelda che, allora, mi sembrava lunghissimo e complicatissimo».
Quando vi siete trasferiti in Italia?
«Quello stesso anno come tantissimi altri albanesi. Il Paese era allo sbando e la gente sperava di trovare altrove un futuro migliore. Non avevamo niente di quello che da voi era normale. Quando papà veniva a Milano, i suoi amici italiani gli preparavano pacchi di caramelle e cioccolatini perché da noi erano introvabili».
Quanti anni avevano i suoi genitori quando hanno lasciato l’Albania?
«Trentadue. Mio papà conosceva l’italiano, mia mamma no. Non sapevano che cosa avrebbero trovato. Ma guardavano i programmi della Tv italiana e l’immagine era quella di un mondo bello, “luccicante”. Per loro L’Italia era l’America».
Il confronto con la realtà, invece, com’è stato?
«Non facile. La nostra nazione era completamente chiusa al resto del mondo, tanto che molti non sapevano della caduta del muro di Berlino. Nei primi anni, mamma e papà si sono dovuti adattare a fare diversi lavoretti e più volte hanno avuto la tentazione di tornare indietro. Man mano, però, la situazione è migliorata. Non hanno mai ripreso a danzare, ma sono diventati insegnanti di ballo».
Lei che ricordi ha?
«Da piccola, mi chiamavano: “Albanese di merda”. Mi sentivo diversa. In tutti i sensi. Se dicevo a mia mamma: “Non vado a scuola perché è Pasqua”, mi rispondeva: “E che cos’è?”. Sotto il comunismo la religione era stata abolita, davvero non aveva idea di che cosa fosse. Da bambina sono cose difficili da accettare. E, a casa, non potevo neppure lamentarmi per le prese in giro, gli insulti».
Perché?
«Mi rendevo conto che per loro era ancora più complicato. Toccava a me aiutarli: a leggere le bollette, a parlare nei negozi, perché io sapevo la lingua. Avevo solo 15, 16 anni, ma quando andavamo a rinnovare il permesso di soggiorno, mi facevo avanti con i poliziotti per evitare che li trattassero male. Tanti ragazze e ragazze hanno vissuto esperienze simili: vivi in due mondi paralleli, ti senti italiano come gli altri ma, a casa, le usanze sono diverse. Solo da grande capisci che è un plus, non una mancanza».
Tornando ai videogiochi, perché a lungo sono stati considerati per maschi?
«Fino a non molto tempo fa, nei negozi, li trovavi sono sugli scaffali dei giochi per i bambini. I miei genitori non avevano preconcetti semplicemente perché non sapevano che ci fosse una differenza».
Quando ha scoperto che potevano diventare una professione?
«Lavoravo come commessa ma, seguendo l’esempio dei miei che avevano fatto della loro passione un lavoro, mi sono detta: “Non sono una programmatrice, però mi piace comunicare con gli altri, raccontare le mie esperienze”. È così che ho scoperto l’esistenza dei blog».
Ed è nato il suo primo sito Game Princess.
«Sì. Ma non mi aspettavo che diventasse una rivista online. È successo per caso, quando alcune ragazze mi hanno chiesto di poter scrivere per me. Lo consideravano un porto sicuro. Dieci anni fa, se una donna parlava di videogiochi, la reazione era: “Che cosa ne vuoi capire?”. Ti sentivi sempre sotto osservazione, giudicata. Ancora oggi, alle presentazioni, agli eventi, mi capita spesso di essere l’unica in mezzo a soli uomini».
Perché ha deciso di dedicarsi anche alla tecnologia e alle automobili?
«Mi hanno sempre affascinato. Dopo quel Nintendo, papà mi aveva comprato un computer vero e, da ragazzina, mentre loro facevano la spesa nel supermercato, io passavo il tempo nei negozi di cellulari a curiosare. Lo stesso per le auto: fin da piccola ho imparato a riconoscere marche e modelli».
Che consiglio darebbe a quei genitori che si preoccupano nel vedere i propri figli giocare on line?
«La rete è come il mondo reale: non sai mai chi puoi incontrare, quindi è giusto fare attenzione. Ma bisogna anche cercare di entrare un po’ in questo mondo, conoscerlo. Quello che dico sempre è: “Provate a giocare con loro”. I videogame non sono solo una perdita di tempo. Si possono imparare molte cose».
Lei che cosa ha imparato?
«Che se hai un’idea, un progetto che ti piace, devi provarci. Fallire non è un dramma. È un po’ come nei videogiochi dove le vite sono infinite: se muori, ricominci da capo».
Testi di Enrica Brocardo
Sabrina Cereseto
L'ultima volta che ho intervistato Sabrina Cereseto (nella foto sopra), cinque anni fa, era già famosa come La Sabri Gamer, aveva 700mila iscritti al suo canale Youtube, pubblicato un libro, La mia vita come un gioco, sui videogame, e a Grazia confessava di passare 18 ore al giorno davanti al computer.
Oggi Sabrina Cereseto, 33 anni, milanese, ha diminuito le ore davanti allo schermo, ma ha aumentato i canali di comunicazione, ne ha due su Youtube, con 2,2 milioni di iscritti, un profilo Instagram da 1,9milioni di follower e un altro su Tik Tok. «In uno parlo della mia passione per i videogiochi e nell'altro di tutto ciò che conta nella mia vita: dall'ambiente all'amore», racconta Cereseto, eletta miss Eleganza nel concorso per Miss Italia del 2008. «Negli ultimi due anni ho raccontato la ricerca di un figlio, che nascerà a ottobre. Però, non ho mai smesso di giocare: appena ho un minuto libero, mi metto sul divano e mi attacco alla console».
Oggi si chiama solo LaSabri e non è il suo unico cambiamento. «A giugno mi sposerò con il mio fidanzato, Alessio Bourcet, noto sui social come Pika Palindromo, un creator come me. Da allora ho scritto altri due libri, Cavolini e Il libro della Felicità (Rizzoli editore), scritto con Alessio, ho doppiato 4 film, Lego Ninjago, Ralph Spacca Internet, Siamo solo orsi e Il giro del mondo in 80 giorni. Ale e io abbiamo aperto un canale di coppia su Youtube che si chiama Naz, dove parliamo di cose importanti, come il percorso di fecondazione assistita che abbiamo cominciato un anno fa. Tre mesi di ormoni e punture sulla pancia, per poi scoprire che ero incinta il giorno prima di andare in ospedale per la procedura».
Testi di Alessia Ercolini
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