Cos'è la sindrome della capanna
di Sabrina Cipolletta - Docente del Dipartimento di Psicologia generale dell’Università di Padova.
Un senso di disorientamento. E il desiderio, conseguente, di rifugiarsi in casa. È la sensazione che in molti provano dall’inizio della fase 2. La chiamano la sindrome della capanna o del prigioniero. Oggi se ne parla molto, ma non è una novità, il fenomeno era già stato osservato in passato, al termine di un’esperienza di reclusione e di isolamento. Con un livello di disagio che può essere più o meno intenso, e manifestarsi attraverso “sintomi” diversi, come ansia, irrequietezza, ma, anche, tristezza, affaticamento, svogliatezza.
Partiamo da un presupposto: dopo due mesi di lockdown è fisiologico che il ritorno sia graduale. Anche perché il mondo, nel frattempo, è cambiato: dobbiamo indossare le mascherine, mantenere il distanziamento sociale. Per settimane ci siamo sentiti dire: «Restate a casa, solo così siete al sicuro» e il virus, che ci è stato descritto come un nemico, è ancora fra noi. Ogni volta che usciamo è come se andassimo in guerra.
In questo senso, la voglia di chiudersi in casa e la movida dei giovani sono due facce della stessa medaglia. Se c’è un nemico, o sfuggo o lo sfido. Ci sono ricerche sugli adolescenti sopravvissuti a malattie gravi che dimostrano come i comportamenti a rischio non siano affatto insoliti. I genitori, però, si preoccupano anche dei comportamenti troppo casalinghi: «Come mai mio figlio non ha voglia di uscire?». Alcuni, però, attribuiscono a un malessere legato al confinamento una situazione che era già presente, ma a cui ponevano meno attenzione. Inoltre, un’altra cosa che dovremmo chiederci è: «Ma, prima, quando erano fuori che cosa facevano? È possibile che si richiudessero da qualche altra parte?». E non è altrettanto possibile che non abbiano voglia di uscire perché non possono fare quello che vorrebbero? Per esempio, stare con gli amici?
La minaccia, poi, in molti casi non è neppure il virus. Chi già prima viveva con ansia il confronto sociale, oggi, potrebbe trovare rassicurante essere confinato. Chi, invece, stava investendo le proprie energie al di fuori delle mura domestiche potrebbe trovarsi in difficoltà, sentendo di aver perso il proprio ruolo, nel lavoro e non solo.
Per chi ha continuato a reinventare la propria quotidianità con nuove modalità di lavorare o passare il tempo, potrebbe essere più facile riadattarsi alla fase due, rispetto a chi si è “fermato”. Un discorso che vale anche per gli anziani: chi ha saputo trovare le risorse per rimanere attivo farà meno fatica.
La pandemia ha estremizzato scelte che erano già presenti. Non vuol dire, però, che non ci siano soluzioni per chi sta vivendo la transizione con più fatica. Se, per esempio, a bloccarci è la paura del giudizio, occorre lavorare sulle premesse per poter considerare che non serve essere perfetti, che si può essere amati per quello che si è. E concedersi un rientro graduale. Ognuno dovrebbe farsi aiutare anche da un familiare, un amico, a trovare un terreno sicuro da cui partire. Frasi come «buttati, vedrai che passa», non funzionano. (testo raccolto da Enrica Brocardo)
Articolo pubblicato sul numero 24 di GRAZIA (28 maggio 2020)
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