«Forza, fatemi emozionare»
Sono l’esempio vivente del fallimento di ogni sport. Non ne pratico più nessuno e non entro in una palestra da almeno 25 anni, al netto degli accompagnamenti dei miei figli.
Non vado a correre, non faccio esercizio fisico, non faccio nemmeno yoga o pilates, non faccio niente tranne camminare. Per il mio compleanno un’amica mi ha regalato due massaggi, non so se possa essere considerato sport, non credo, ma non ho ancora trovato il tempo di andare a riscuoterli, anche se ogni mattina giuro che oggi lo farò, al massimo domani.
Il contapassi del telefonino è il mio unico contatto pratico con il mondo dello sport. Per non abbassare la media quotidiana dei passi, sono capace di attraversare la casa cento volte alle due di notte, ma è tutto quel che ho da offrire alla disciplina del corpo.
Da ragazzina facevo ginnastica artistica, poi ritmica, mi piaceva molto, ma non abbastanza: mi piaceva tendere le punte, tendere le gambe, cercare una grazia, saltare, lanciare in aria la palla blu e poi riprenderla. Non ero particolarmente brava, ma nemmeno particolarmente negata, ma preferivo sempre leggere o andare al cinema o chiacchierare o fantasticare o prendere il treno per andare da qualche parte. L’ho sempre preferito a tutto, e quindi anche a sudare, cambiarmi, gareggiare, tirarmi i capelli indietro con le forcine.
E così alle fine anche giocare a tennis, sciare, nuotare, la pallavolo, la corsa: tutto è stato in poco tempo vinto dalla mia pigrizia e da una troppo scarsa competitività.
Se fossi una delle magnifiche ragazze italiane che parteciperanno alle Olimpiadi di Tokyo per la ginnastica artistica, mi disprezzerei. Io, invece, loro le adoro. Resto incantata a guardarle per ore, cerco su YouTube sempre nuovi esercizi, nuovi volteggi, mi tormento quando sbagliano un passo, quando atterrano male dopo un salto. Quando cadono, mi si annoda lo stomaco. Vorrei applaudirle, incontrarle, dire loro quanto sono brave e quanto ammiro i loro sacrifici e la loro dedizione.
L’aver offerto la vita, l’adolescenza e il corpo a uno sport, a uno scopo. Leggo le loro biografie, conosco le storie dei loro genitori, ammiro anche la decisione del padre di Serena e Venus Williams, le tenniste, di allevare due campionesse: con le racchette di seconda mano, allenavano il dritto e il rovescio sulle palline sgonfie che lui lanciava loro, così allo stesso tempo risparmiavano sull’acquisto di nuove palline e le due sorelle imparavano a colpire più forte.
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