«L'odio non può vincere»: l'editoriale di Silvia Grilli
È diventata una crudele partita senz’arbitri. Un gioco al massacro tra due opposte tifoserie che si scontrano. Chi sta con Israele, chi sta con la Palestina, lanciandosi addosso parole che fanno male quasi quanto i coltelli che si sono scatenati nelle città del mondo, dopo i feroci attentati terroristici palestinesi del 7 ottobre contro Israele. Prima il male assoluto: genitori massacrati mentre cercavano di proteggere i figli con il loro corpo, neonati uccisi nelle culle, ragazze e ragazzi assassinati a un festival di pace, donne stuprate, aggredite e fatte sfilare come trofei. Poi la controffensiva israeliana, la luce e l’acqua tolte ai palestinesi della Striscia di Gaza a cui sono seguite urla, aggressioni e ferocia sulle strade del mondo e una nuova caccia all’ebreo che riporta bui ricordi dell’Olocausto e del genocidio di un popolo.
Il vortice dell’odio cresce nelle manifestazioni e tra gli eserciti di utenti che si fronteggiano sui social. Ho visto cartelli che inneggiavano alla disumanità delle milizie di Hamas, esaltate come vendicatrici dei colonialisti ebrei. I nostri figli e nipoti sentono parlare sui social di «territori occupati con la forza da Israele» e pensano che i terroristi palestinesi siano partigiani che vogliono riprendersi la loro terra. Il dolore di una madre di Gaza è lo stesso di una mamma israeliana, e io piango per i loro figli allo stesso modo, ma non è tutto successo adesso. È una storia lunga che, se racconta di errori da entrambe le parti, racconta anche della pace lasciata sfuggire quando era lì, a un passo, per forgiare destini migliori e risparmiarci la ferocia che abbiamo visto in questi giorni terribili.
La storia è scritta, a testimoniare che avremmo potuto salvarli, palestinesi ed ebrei. Che Gaza sarebbe potuta essere l’embrione di uno Stato palestinese e invece è diventata una piattaforma per il lancio dei missili di terroristi che hanno come obiettivo dichiarato ricacciare in mare gli ebrei e annientare lo Stato d’Israele, senza alcun interesse per migliorare la vita della propria gente.
Ci sono i fatti e dicono che andò diversamente da come la raccontano i social ai nostri figli. Quando, nel 1947, ai palestinesi venne offerto uno Stato, i Paesi arabi si opposero, non Israele. Non si tratta di opinioni. La storia ricorda che dal 1991, con la Conferenza di Madrid, ci sono stati molti tentativi di pace, quasi deragliati quando un colono israeliano assassinò il primo ministro del suo Paese Yitzhak Rabin, che lavorava per un accordo. E tuttavia gli sforzi per arrivare a una convivenza di due popoli e due Stati proseguirono. La passeggiata provocatoria sulla spianata delle Moschee dell’ex primo ministro israeliano Ariel Sharon scatenò di nuovo la rabbia palestinese, ma le prove di pace continuarono. Nel 2000 il presidente americano Bill Clinton fu l’artefice di una mediazione che avrebbe dato ai palestinesi tutta la striscia di Gaza, il 96 per cento della Cisgiordania, terre israeliane a compensazione e altro. Il governo israeliano accettò il piano. L’allora presidente della Palestina Yasser Arafat non disse di no e non disse di sì. Rallentò e la pace sfumò.
Il popolo palestinese è stato tradito e sicuramente ha sofferto, ma non si può dare sempre agli altri la colpa, rimanendo eternamente nella condizione di vittime. Come si può ricominciare ora che tutto è finito con le provocazioni dei coloni israeliani e il culto della morte di Hamas? A Israele deve rimanere il diritto di esistere e ai palestinesi la speranza di dignità e di futuro.
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