Quando mancano sette giorni a Natale, la dieta deve funzionare o i danni saranno irreparabili
Sono a dieta da quasi vent’anni e quando mi dicono: ma che te ne frega, tanto sei magra!” Io rispondo: se dessi libero sfogo ai miei istinti — perché quando si parla di cibo, ce n’è più di uno — e mangiassi tutto quello che desidero, non sarei una 38 con le spalle larghe.
In questi anni ho capito una cosa: se vai a letto con la fame, la dieta sta funzionando. E quando mancano sette giorni a Natale, la dieta deve funzionare o i danni saranno irreparabili.
Ecco il vero Nightmare before Christmas: la settimana che precede il Natale, fatta di stenti, privazioni e tante proteine, necessaria per asciugarmi in previsione di quello che verrà.
L’apocalisse per tutte le silhouette del pianeta — nessuna esclusa, neanche quelle con il metabolismo veloce.

E come se non fosse già abbastanza dura, ci si mettono pure i pranzi, le cene, gli apericena e i brunch per gli auguri di Natale. Ma perché?
Ci rivedremo tra dieci giorni sicuramente ingrassati e in paranoia e siamo così scaramantici da farci pure gli auguri?
Ma forse ne ho bisogno.
Se la forza di volontà dovesse abbandonarmi? Di solito succede e senza nessun preavviso, così: di punto in bianco. Un attimo prima, sono irremovibile e un secondo più tardi, sono pronta a chiudere un occhio. Anche tutti e due.
È notte, la luce è spenta e vedo il cibo dappertutto. Mi viene pure l’acquolina in bocca, se penso al mio palato che abbraccia un paio di pringles. E poi fuori fa freddo, la voglia sfrenata di cioccolato è quasi matematica. Se passo quella, mi dico, è quasi fatta.
« È notte, la luce è spenta e vedo il cibo dappertutto. Mi viene pure l’acquolina in bocca, se penso al mio palato che abbraccia un paio di pringles »
Il problema sorge quando arriva quella curiosa, quella che di solito ti viene in gravidanza, che si è presentata per tre notti di fila e che quindi è diventata una cosa seria: il guacamole.
So che il Conad è chiuso e Giaco non può andare a comprarlo e in quel momento, rimpiango di non vivere a Israele, dentro una piantagione di avocado.
Pazienza. Mi giro su un lato e provo a dormire facendomi coraggio: mancano solo tre giorni alla vigilia.
Posso farcela e ce la faccio.
Arriva il gran giorno e mi sento un fiorellino: pancia piatta, pelle luminosa, corpo tonico. L’equivalente di Apollo Creed prima dell’incontro con Ivan Drago. — Che tanto si sa come va a finire. Ma il mood è quello, sono in forma e sicura di vincere.
I primi segni di cedimento compaiono alla vista della prima tavola imbandita della stagione: un’apripista.
L’astinenza comincia a farsi sentire, è come se avessi accumulato una carica erotica nei confronti del cibo, che devo assolutamente soddisfare — prima di subito. Ma per una buona causa, si può buttare una settimana di sacrifici giù da una scarpata: Natale viene solo una volta all’anno.
Per fortuna. A Santo Stefano fingo di sentirmi male per evitare un altro pranzo che probabilmente mi ucciderebbe.
E il ventisette di dicembre, vorrei essere lanciata con un elastico dentro a uno dei centri Mességué. Un soggiorno forzato per recuperare le sane e vecchie abitudini.
Rivoglio gli stenti, le privazioni, le proteine, rivoglio tutto, anche le crisi di fame notturne.
In fondo, mancano solo quattro giorni al cenone di Capodanno... posso farcela.
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