Marion Cotillard: L’amore vero ha le sue vie

Sul grande schermo fa sempre perdere la testa ai divi più desiderati. Al punto che, quando Brad Pitt ha divorziato,
tutti hanno pensato ci fosse dietro lei. Ma Marion Cotillard, che si prepara a diventare mamma per la seconda volta, non crede alla passione da set. Con una sola, grande, eccezione

“Assassin’s Creed” – Photocall

Il destino dell’attrice francese Marion Cotillard è quello di stravolgere la vita degli uomini che ha accanto. Dentro e fuori dal set. L’ultimo in ordine di tempo è stato Brad Pitt, suo partner in Allied - Un’ombra nascosta (nelle sale dal 12 gennaio). Per l’intera durata del set si era chiacchierato del loro presunto innamoramento come causa della fine della coppia che l’attore formava con Angelina Jolie. Al punto che proprio Marion, incinta del suo compagno, l’attore Guillaume Canet, ha poi dovuto rompere la sua tradizionale riservatezza per smentirle.
Ma Cotillard, 41 anni, non è nuova alla gestione dei gossip da set. Anche perché viene sempre scelta per stare accanto ai maschi più desiderati del cinema. In questi giorni è la dolce e remissiva moglie di Vincent Cassel, nel film in odore di candidatura all’Oscar È solo la fine del mondo, del regista canadese Xavier Dolan. Presto la vedremo nel thriller fantascientifico Assassin’s Creed, nelle sale dal 4 gennaio, al fianco del fascinoso Michael Fassbender. A febbraio, invece, sarà accanto “all’unico uomo di cui ha bisogno”, come dice lei: Canet, padre di suo figlio Marcel, 5 anni, e autore del film Rock’n Roll, una commedia ispirata proprio al loro rapporto.
Mentre la vedo arrivare al Beverly Hilton di Los Angeles, l’attrice sorride mostrando il pancione di futura mamma. Indossa un abito del marchio giapponese Sakai e scarpe col tacco di Gianvito Rossi, in barba a ogni tutona premaman. Sono le 9 del mattino e Marion chiede un caffè a un assistente. Poi inizia a parlare lentamente, in un inglese perfetto, scegliendo con cura ogni termine. Soprattutto quando cominciamo a parlare di uomini.
In Allied lei è una combattente della Resistenza che si innamora di Max, l’ufficiale dei servizi segreti interpretato da Brad Pitt. Siete a Casablanca, nel 1942, lo stesso anno in cui uscì il famoso film con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman. Perché l’amore che nasce in quella città è sempre così tormentato?
«Non ci avevo pensato. La verità è che ho provato a fare finta che il classico Casablanca non esistesse, perché temevo che poi avrei cercato di ricreare quell’atmosfera e, invece, non era questo l’obiettivo. Comunque devo smentirla, conosco persone che si sono innamorate a Casablanca e stanno ancora insieme: l’amore ha le sue vie».
Di un uomo come Brad Pitt, però, è facile innamorarsi, soprattutto sul set.
«È un grandissimo attore. Primo, perché in ogni suo film è sempre diverso. E poi perché, anche se è una star, non si mette mai al di sopra degli altri: potrebbe rinchiudersi nella sua torre d’avorio, ma non lo fa. Sul set, ha sempre una parola buona per tutti».
Tuttavia questo non deve essere un momento semplice per lui, con il divorzio dalla moglie Angelina Jolie.

 Come lo ha trovato?
«Brad ha dimostrato tante volte, in passato, di essere non solo un professionista, ma soprattutto un uomo buono e molto generoso. E questa è la persona che ho conosciuto io».
Nel film ci sono un paio di sequenze indimenticabili. Una è la vostra scena di sesso in auto durante una tempesta di sabbia.
«Non è mai facile girare quelle immagini. Non è tanto una questione di imbarazzo: è che devi trasmettere un senso di autenticità in una situazione davvero complicata. Diciamo che il segreto è studiare bene la “coreografia” così che, dopo il ciak, tu riesca a lasciarti andare e recitare nel modo più naturale possibile».
Un dettaglio importante, che purtroppo sfugge nell’adattamento italiano del film, è che Pitt recita in francese. È stata lei ad aiutarlo con la lingua?
«No, è abituato a usarlo, ma so bene che non deve essere stato facile per lui. Non solo: doveva parlare francese con un accento canadese e vi posso assicurare che è un compito che richiede molto impegno».
In un’intervista, il regista Robert Zemeckis, ha detto che insieme con Brad Pitt evocate una “complicità elettrica”. Che cosa intendeva, secondo lei?
«Non so, forse il contrario dell’elettricità statica? Di sicuro non cercate una risposta su internet: ormai si leggono talmente tante invenzioni che non vale la pena nemmeno smentirle».
Quando ha detto sì a questo film si sarebbe aspettata tanto gossip su voi due?
«No, anche perché avevo accettato la parte senza sapere chi avrei avuto al mio fianco. Volevo solo interpretare lo spirito che anima il mio personaggio: la forza di amare fino al punto di non aver più paura di morire».
Una delle domande che ci si pone durante la visione di Allied è: fino a che punto possiamo dire di conoscere chi amiamo? Lei che risposta si è data?
«Credo che la prima cosa da fare sia conoscere te stesso. Solo a questo punto, poi, puoi provare a comprendere quanto sia autentico il tuo partner, o chi ti sta vicino. Quello che impari, le esperienze che fai, gli ostacoli che superi, ciò che ti spaventa, sono parte di un percorso che ti porta verso il cuore delle persone».
E lei ritiene di conoscere bene il suo uomo? O pensa che sia meglio che in una coppia resti sempre un po’ di mistero?
«Quello ci sarà sempre, me ne accorgo pensando proprio alle persone che amo di più. Ma questo non toglie che bisogni lavorare su se stessi se si vuole sviluppare un po’ di empatia verso gli altri».
A proposito, nel film Assassin’s Creed, si ritrova per la seconda volta accanto a un altro sex symbol, Michael Fassbender, con cui aveva recitato in Macbeth. Che cosa vi lega sul grande schermo in questa occasione?
«Interpreto una scienziata che aiuta Michael a rivivere le memorie dei suoi antenati. È una trama che mi ha aiutato a esplorare temi come il libero arbitrio e la consapevolezza delle proprie paure. Per fortuna, con Fassbender, niente gossip».
A proposito di libero arbitrio, lei recita da molti anni. Quanto pensa che le sue scelte l’abbiano cambiata?
«Non sono più la stessa attrice degli inizi, perché non sono più la stessa donna. Ma spero di essere rimasta almeno la stessa persona».
Lei, nella vita di tutti i giorni, somiglia alla Marion di Rock n’Roll, il film che il suo compagno Guillaume Canet ha girato ispirandosi alla vostra vita?
«Sì e no. Quella sarà una commedia, decisamente sopra le righe, sulla nostra coppia. Spero che il pubblico si diverta».
Nel trailer la vediamo impegnata a cucinare per il suo consorte, oppure a letto in tuta da ginnastica e con una maschera spalmata sul viso. Uno degli assunti della storia è che suo marito, ex star, soffra il fatto di essere meno famoso di lei. È così? Ed è vero che lei non voleva neanche diventare una diva del cinema?
«Sì, volevo solo provare a vivere più vite possibili e raccontarle a modo mio. Non m’interessava stare sotto i riflettori. Oggi, tuttavia, posso passare del tempo fianco a fianco con molte persone che ammiro. Questo per me è stato realizzare un sogno, uno di quelli che si avverano se lavori sodo e mantieni un modo di fare positivo».
Lei sta diventando mamma per la seconda volta. Significa che anche la relazione con il suo compagno sta cambiando?
«I miei capelli e il mio fisico sono diversi, ma sono sempre io. Siamo in un momento molto felice: è una bella avventura quando il tuo compagno di viaggio è una persona che ami, stimi e rispetti. Certo, la maternità ogni volta è una nuova sfida».
Perché?
«Magari non ti cambia, ma ti constringe a evolverti. Devi trovare un nuovo equilibrio tra la donna che sei e la madre che diventerai. Quando non avevo figli, potevo permettermi di rimanere concentrata sul mio lavoro, attaccata al mio personaggio. Come madre non posso vivere in un altro mondo: devo staccare e tornare me stessa per mio figlio».
L’abbiamo vista in tour senza sosta per presentare i suoi film. Le piacciono i tappeti rossi?
«Ho dei collaboratori che mi aiutano con i look, ma il lavoro che molti sottovalutano è quello che devo fare su di me: posare su un red carpet è un’esperienza estraniante e non è facile sembrare naturali sotto tutti quei flash. Persino quando hai un buon trucco e dei bei vestiti».

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Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"

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Jodie Foster festeggia al cinema 60 anni da star. Nel thriller Vita privata, da oggi nelle sale, è una psicanalista tormentata. Ma a noi racconta come, grazie alla sua carriera, ha capito che le donne over 50 hanno tutte le carte per vincere

Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.

Che rapporto ha con il passare del tempo?

«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».

Davvero?

«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».

Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.

«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».

Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?

«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».

Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?

«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».

Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…

«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare». 

Come mai?

«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».

Che cosa le disse al ritorno?

«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».

Ha fatto lo stesso con i suoi figli?

«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».

Che rapporto ha con la psichiatria?

«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».

Com’è andata?

«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».

E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?

«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il  corpo».

Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?

«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».

Che cosa di lei non hanno mai capito finora?

«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».


Com’è la sua giornata ideale?

«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».

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Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli

Elena Valzania x Alleanza
L'eredità di famiglia può assicurare un sostegno economico ai propri cari. Basta sottoscrivere una polizza di investimento adeguata, affidandosi a un bravo consulente

Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».

A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.

La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.

Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».

Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela

RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)

1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».

2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni? 
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».

Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com

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«Quanto ti dicono: "se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?"»: l'editoriale di Silvia Grilli

Silvia Grilli
Il nuovo numero di Grazia è ora in edicola. Ecco l'editoriale della Direttrice Silvia Grilli

In una scena di C'è ancora domani, la protagonista Delia, costretta dal marito brutale a un rapporto sessuale, toglie un granellino di polvere dal comodino, completamente estranea a quanto le sta accadendo. La dissociazione è un'autodifesa comune tra le vittime di stupro.

Una ragazza che intervistai mi raccontò che, durante la violenza, cercava di ricordare le parole delle sue canzoni preferite. Era come congelata nel panico: non urlò, non si mosse, terrorizzata di subire ulteriori aggressioni.

Jessica Mann, una delle testimoni al processo contro il produttore stupratore Harvey Weinstein, ha ricordato di essere rimasta immobile, mentre lui la violentava. Mann ha citato in tribunale uno studio scientifico sulle difese messe in atto da esseri umani e animali. Questi ultimi si fingono morti di fronte a un attacco, perché così i predatori sembrano perdere interesse. Ma, per ironia della sorte, è proprio l’immobilità della vittima a mettere in dubbio la credibilità delle donne nei dibattimenti per stupro. «Non si è mossa, quindi vuol dire che ci stava».

Giorgia Meloni ed Elly Schlein hanno voluto una legge per cambiare la vecchia norma, secondo la quale è reato solo se si viene costrette ad atti sessuali con modi violenti o minacce. Le due leader condividono l’idea che il consenso debba essere dichiarato all’inizio e durante il rapporto.

L’atto sessuale deve avvenire per libera scelta, non per ricatto, abuso di potere o quando la volontà è ridotta per effetto di alcol o sostanze. E non è consenso solo perché si era detto «sì» in passato o perché si è sposati. Il silenzio o l’inerzia non sono acquiescenza, ma una conseguenza della violenza stessa. E ci si può tirare indietro, anche dopo aver, inizialmente, condiviso l’approccio.

La legge, nata dal patto Meloni-Schlein, è stata approvata all’unanimità dalla Camera dei deputati. Ma al Senato, nella Giornata contro la violenza degli uomini sulle donne, è stata bloccata e rinviata. Il ministro Matteo Salvini sostiene che «Il consenso preliminare lascia spazio a vendette personali che intaserebbero i tribunali».

Cioè, la magistratura si ritroverebbe con orde di donne che mentono. Sinceramente, non ho mai visto in Italia tutta questa folla di femmine pronte ad accusare per incastrare qualcuno. Sinceramente, mi pare il contrario: le vittime non denunciano perché conoscono bene gli interrogatori e il calvario che dovrebbero sopportare se lo facessero. Sinceramente, mi sembra una bocciatura per paura di perdere i privilegi maschili.

In una scena del film After the Hunt - Dopo la caccia, Julia Roberts dice a una studentessa che accusa un professore di stupro: «Non denunciare, altrimenti diventerai radioattiva. Il nostro sistema è dominato dai maschi. Ne avrai bisogno quando chiederai lavoro, e non lo otterrai perché saranno terrorizzati che un giorno tu possa accusare anche loro».

La notte del weekend scorso, a Milano, una ragazza ha denunciato per violenza un giovane con il quale si era allontanata. «Mi ha violentata», ha detto. «Era consenziente», ha ribattuto lui. Un consenso che fino a un certo punto c’è stato. Poi non più.

Lo stupro non è stupro solo se ti costringono con la pistola puntata alla tempia. Lo è anche quando io non voglio o non voglio più. Vale anche nel caso di rapporti sessuali tra conviventi: solo «sì» è «sì».

Anni fa, un senatore californiano si oppose a una legge contro lo stupro nel matrimonio, dicendo: «Se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?». Ecco, è proprio questo il concetto: né il corpo di tua moglie né quello della ragazza che si allontana con te, poi cambia idea, ti appartengono. Il loro corpo è loro, non tuo.

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GRAZIA presenta il numero straordinario "L'arte è donna" con direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo

cover Grazia 4 dicembre
Questa edizione speciale celebra il talento e il coraggio di artiste, galleriste, progettiste e collezioniste

Grazia, il magazine di Reworld Media diretto da Silvia Grilli, presenta il numero straordinario L'arte è donna. Il talento e il coraggio di artiste, galleriste, progettiste, collezioniste sono il filo conduttore di questa edizione speciale che ha come direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, fondatrice e presidente della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, collezionista e mecenate riconosciuta a livello internazionale.

“Nella storia dell’arte le donne sono state cancellate o relegate al ruolo di mute muse ispiratrici, tagliate fuori dalle scuole, dalle botteghe degli artisti”, dichiara Silvia Grilli, direttrice di Grazia. “Con questo numero abbiamo voluto invece raccontare il talento femminile che c’è e c’è sempre stato, la creatività, pervicacia e abnegazione delle artiste donne, il loro sguardo diverso. Quando ho chiesto a Patrizia Sandretto Re Rebaudengo di curare questo numero di Grazia, ho trovato un’interlocutrice appassionata, capace di raccontare nel modo migliore quel genio che non è appannaggio esclusivo degli uomini”.

“Questo numero speciale contiene storie, opere e luoghi che raccontano la mia vita con l’arte contemporanea, sul filo di una grande passione, un sogno, una visione che seguo e inseguo da oltre trent’anni”, spiega la direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. “Fra queste pagine, quel filo rosso è diventato un progetto a più voci che ha unito le forze per parlare dei cambiamenti del mondo delle donne: artiste, collezioniste, direttrici di musei, architette, scienziate. Nessun separatismo, le storie che abbiamo scelto, insieme con la direttrice Silvia Grilli e lo staff di Grazia, superano la tradizionale categoria di ‘femminile’, nell’editoria così come nell’arte, per portarci in un territorio di ricerca, uno spazio plurale, aperto sul presente, sensibile al diritto all’autodeterminazione, al di là di nascita e appartenenze”.

La copertina del numero è un’opera della pittrice e fotografa polacca Paulina Olowska intitolata Weeds (2017 - Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) che attraverso un nudo femminile - genere che nella storia dell’arte è stato per lo più appannaggio dello sguardo maschile - reclama la propria libertà di espressione.

Per raccontare il suo percorso, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo si è affidata alle domande attente del giornalista Dario Maltese e insieme hanno parlato di arte, emozioni e futuro. Si prosegue poi con Hans-Ulrich Obrist, curatore d’arte e direttore artistico delle Serpentine Galleries di Londra, che intervista per Grazia l’architetta messicana Frida Escobedo, che realizza progetti nati dal suo bisogno di comunicare.

E il mondo scoprì le artiste è invece un’inchiesta approfondita sui grandi talenti dimenticati dalla storia. Pittrici e scultrici hanno infatti dovuto lottare e affrontare una moltitudine di ostacoli che non hanno diminuito il loro valore, ma spesso ne hanno cancellato traccia. Storiche dell’arte e curatrici stanno così adottando nuove strategie per restituire loro visibilità, mettendo in atto una vera e propria rivoluzione creativa.

Anche la moda è in linea con il tema portante del giornale: i bijoux americani degli Anni 30 collezionati da Patrizia Sandretto re Rebaudengo saranno abbinati a look liberi e anticonformisti e avranno come sfondo le opere della pittrice Pia Krajewski. 

Sulle pagine della rivista ci sono poi due artisti che vanno oltre le definizioni di genere, lasciando spazio alle loro visioni: si parla di arte e natura con Jota Mombaça e di linguaggi e inclusione con Diana Anselmo.  

Anche il rapporto tra arte cinema è strettissimo: il grande schermo ha raccontato le vite e il tormento dei geni della pittura e Paola Malanga, direttrice artistica della Festa del Cinema di Roma, ha scelto per Grazia le pellicole da non perdere.

Nella sezione dedicata alla cultura, con la collaborazione della Fondazione Sandretto re Rebaudengo, vengono spiegati i percorsi artistici formativi e segnalate le 10 mostre dell’inverno da non perdere che guidano i lettori e le lettrici in un viaggio di linguaggi diversi.

Infine uno spazio è dedicato anche alle eccellenze mediche al servizio della salute delle donne della Fondazione IEO-MONZINO ETS, di cui Patrizia Sandretto Re Rebaudengo è presidente. A parlare delle conquiste nelle terapie e nella prevenzione decisive per le pazienti sono la specialista di senologia Viviana Galimberti e la cardiologa Daniela Trabattoni.