I suoi libri nascono dalle storie della gente comune. E spesso diventano film di successo. Nel nuovo romanzo Nessuno come noi, Luca Bianchini racconta i ragazzi degli anni 80 che poi, con vestiti diversi, sono uguali a quelli di oggi. E a Grazia spiega come è riuscito a capirlo
Buongiorno, Luca. Ha la voce assonnata, l’ho svegliata?
«No, ormai sono anziano, dormo pochissimo».
Coraggio, ha solo 46 anni. E poi, star svegli è un dono dell’età. Si vive di più.
«Che bella idea, che bella frase».
Ecco, questo è Luca Bianchini. Uno capace di gratificarti a raffica: «Caspita, ha ragione. Oh, ma che cosa interessante. Davvero non ci avevo pensato». E via così: una macchina da complimenti, travolgente, divertente.
Scrittore (di bestseller), grande affabulatore e, soprattutto, straordinario ascoltatore. Capta le storie degli altri e le trasforma in romanzi, capaci di parlare a tutti, perché da tutti nascono. L’ultimo s’intitola Nessuno come noi, appena edito da Mondadori: un racconto ambientato nell’adolescenza degli Anni 80: allegra, malinconica e fragile.
Le faccio un complimento anch’io, Bianchini. Lo sa che il suo è uno dei libri più attesi della stagone?
«Oh mamma, odio avere troppe aspettative. Comunque è un’emozione».
Lei ha venduto tantissimo con bestseller come Io che amo solo te, divenuti anche film. Si emoziona ancora?
«Sì. Sono grato ai lettori che vogliono bene a quello che scrivo».
A che cosa esattamente?
«Forse al fatto che nelle mie storie trovano cose a cui non pensavano più, ma che sono anche parte di loro. Leggi e scopri un segreto che magari non sapevi di avere. Per esempio in Io che amo solo te raccontavo un tipo di amore che tutti conoscono e nessuno dice: l’amore idealizzato, quello che tieni chiuso in un angolino della testa per tutta la vita».
Lei ce l’ha questo amore nascosto nella testa?
«Ho i miei rifugi mentali. E poi ho la scrittura: lì puoi mettere tutto quello che completa la tua vita, quella vera. E puoi scoprire quello che hai nascosto perché avevi paura».
Per lei scrivere significa questo?
«È anche, e soprattutto, la decisione di mostrarsi nudi. Io mi copro sempre per uscire nel mondo: vesto il mio corpo e anche la mia faccia».
Lei sorride sempre: è un vestito anche questo?
«Io amo ridere, mi piace tantissimo farlo, in pubblico».
E in privato?
«Sono molto malinconico quando sto da solo».
Cosa che però le piace, dica la verità.
«Moltissimo. Amo stare con la faccia triste in casa, ascoltando pessime versioni di Chopin. Ha presente quei cd che si vendono negli autogrill e tutti si domandano: “Ma chi se li compra?”. Io. Me li compro io. E li ascolto per ore, soprattutto quando scrivo. Credo di aver spaventato una mia vicina con tutta questa musica da requiem. Un giorno ha bussato alla porta portandomi dei dolci. Sicuramente pensava che fossi depresso, disperato».
Che cosa ha scoperto di sé, scrivendo?
«Che essere nato povero e in periferia mi dà il diritto di entrare con le mie storie in tutte le case, perché vengo dal basso. Niente di quello che scrivo cade dall’alto sulla testa della gente».
Adesso lei è ricco.
«Sì, se voglio prendermi un toast in un bar molto figo sapendo che costa 18 euro, posso farlo. E me lo godo un mondo. Poi, però, prendo l’interregionale e non il Frecciarossa per tornare a casa. Perché alla fine sono sempre un ragazzo di periferia».
Ragazzo.
«Sì, per modo di dire. Anche se ancora mi definiscono “giovane scrittore” -alla mia età!- quando in realtà sono soltanto uno scrittore poco conosciuto».
Ma se è in testa alle classifiche.
«Sì, ma è il frutto del passaparola. E poi ci sono i social network. A loro devo eterna gratitudine».
Li ama?
«Sto cercando di usarli meno. Vado online solo tre volte al giorno, per mezz’ora, dopo i pasti. Come una medicina o un ciclo di disintossicazione. Ma, mi dica, sto rispondendo bene alle domande?».
Certamente. Perché questo dubbio?
«Non so. Comunque mi avverta se qualcosa non funziona. Io sono un fan della verità. Anche se so che la gente non ama sentirsela dire».
Lei che cosa non vuole proprio ascoltare?
«Gli eufemismi. Quando dicono “carino il tuo libro”, “carino il tuo film”. Mi sembra un modo per liquidarlo».
Lei dice sempre la verità?
«Se entro in una casa modesta e vedo mobili con sopra il centrino di pizzo penso che siano inguardabili. Ma mi piacciono e lo dico. E questa è la verità. Mi piacciono perché conosco lo sforzo che c’è dietro, la voglia di abbellire quel poco che hai. Io vengo da lì, da quel mondo».
Adesso frequenta le celeb.
«Capita. Ma non faccio mai finta che siano persone qualunque. Trovo ridicolo trattare una star come se fosse tua cugina. Preferisco dirle: “Dai abbracciami, così sembro famoso pure io”. In genere ci stanno e si divertono molto. Io pure».
Lei è un uomo vanitoso, Bianchini?
«Moltissimo. Mentre le parlo al telefono mi sto aggiustando i capelli».
Era una domanda seria.
«E allora, seriamente, le dirò che sono un vanitoso consapevole. Quindi riesco a non drammatizzare e a non prendermi troppo sul serio. Ma perché mi sono messo a parlare di queste cose? Ho sbagliato?» .
Torniamo al libro. Adolescenza negli Anni 80: è molto diversa da quella di oggi?
«Ho intervistato molti ragazzi che frequentano lo stesso liceo in cui è ambientato il mio romanzo. Ho scoperto che sono uguali, identici a come eravamo».
Anche se apparentemente sono diversissimi.
«Certo non guardano più il telefono fisso, sperando che squilli in mezzo all’ anticamera, ma hanno la stessa ansia di essere amati. Hanno la stessa fragilità. Uguali speranze. Hanno anche gli stessi brufoli. E questo è molto rassicurante. La vita è molto più forte di noi».
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