La sfida del lavoro, per i giovani, si gioca soprattutto sulle idee
Sapete qual è la parte più faticosa del mio lavoro? Gestire i giornalisti? No, quello è un piacere. Allora collaborare con art director, grafici, photo editor, fotografi...? Ma no, figuratevi. Rincorrere le star per le interviste? Scegliere le copertine? Andare a presentazioni, sfilate, incontri, sempre con il sorriso sulle labbra anche quando hai ai piedi quei maledetti tacchi dalle 8 del mattino e vorresti solo andare a casa per toglierteli già in ascensore? Vero, ma non è questo. Il peggio del mio lavoro è dover rispondere, una media di una decina di volte al giorno quando va bene, alle mail di chi vorrebbe tanto lavorare in un giornale spiegando che in questo momento è proprio impossibile. E se dispiace, ma insomma è anche normale, dover stroncare le velleità di quei pochi che magari un lavoro ce l’hanno già, ma da sempre “amano tanto scrivere”, diventa davvero pesante quando chi si propone avrebbe invece tutte le carte in regola - per età, studi, entusiasmo - per aspirare almeno a una chance e invece la risposta rimane la stessa. Perché nelle redazioni, come, ahimè, in molti altri posti di lavoro, in questi brutti anni di crisi, non c’è spazio per l’apprendistato.
Ho letto che in Italia ci sono tre milioni e mezzo di superlaureati, che vuol dire giovani che dopo l’università hanno preso un master, frequentato qualche università all’estero, insomma ulteriormente arricchito il proprio curriculum, che sono disoccupati, oppure con un lavoro molto precario. È proprio per il senso di impotenza che mi prende ogni volta che devo dire quel “mi dispiace, ma in questo momento...”, che abbiamo deciso di raccontare in ogni numero di Grazia una “start up”, cioè un progetto, un’idea, una passione che sia riuscita a diventare una realtà (vedi pag. 200). Perché ho la sensazione che lì sia il futuro e che lì si debbano focalizzare le energie dei nostri giovani, almeno fino a che il mercato non offrirà nuove possibilità.
Certo, non siamo in America, dove, spiegano gli esperti, 100 dollari e un clic del mouse sono sufficienti per dare vita a un’azienda. Qui da noi la burocrazia è un incubo: ho un’amica che vuole aprire una profumeria e mi racconta che passa le giornate correndo di qua e di là alla ricerca di tutte le autorizzazioni necessarie, ben sapendo che, quando avrà finito, ci sarà ancora qualcosa che non funziona... «L’Italia è diventato un paese amico delle start up!», sostiene il ministro Passera, parlando del decreto Crescita 2.0 che, in effetti, garantisce una serie di agevolazioni per chi inizia un’attività in proprio. I settori più frequentati sono quelli tecnologici, Internet in testa, energie pulite e informazione.
Investimenti? Pochi, anzi pochissimi da parte di Stato e banche. Però, mi spiegano, esistono gli Hub, gli incubatori (per i neonati sono al femminile...) che possono aiutare, e non solo in termini economici, chi abbia l’idea giusta. Sempre negli Stati Uniti, a partire da gennaio,sarà regolamentato quello che si chiama il “crowdfunding”, cioè una sorta di finanziamento dal basso, via Internet: chiunque abbia un progetto, un prodotto, lo lancia online e tutti, pagando, possono diventare soci. Insomma aiutati che la Rete ti aiuta...
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