«Il velo che va di moda da noi e fa male in Iran»: l'editoriale di Silvia Grilli sul nuovo numero di Grazia
Non riesco ad accettare che in Occidente si consideri portare il velo islamico una scelta delle donne e che un simbolo di oppressione sia entrato a far parte delle campagne per l’inclusione delle diversità. Con l’idea che non ci siano culture migliori di altre, si sostiene che lo hijab sia il distintivo di una tradizione e chi la pensa diversamente rischia di essere accusato di islamofobia.
Questo finché le coraggiose iraniane hanno dimostrato, pagando con la vita, che non c’è nulla di libero nell’indossarlo: da loro se non lo porti in modo appropriato ti arrestano, ti frustano, ti uccidono. È accaduto il 16 settembre a Mahsa Amini, 22 anni, picchiata a morte a Teheran.
Il velo è l’espressione più evidente della segregazione e sottomissione delle donne nella famiglia, nel lavoro, nello studio, nello sport. Se vogliamo chiamarlo simbolo, lo è certamente dell’ossessione maschile per il corpo femminile, che va coperto per dimostrare modestia e non sfidare gli uomini con la propria impudicizia.
Eppure, nel nome della tolleranza e dell’inclusione, anche alle recenti settimane della moda qualche stilista ha presentato l’hijab, come se ignorasse ciò che sta accadendo in Iran.
Come sappiamo, in quel Paese le persone stanno protestando contro le regole di una teocrazia medievale che considera l’immagine femminile il più pericoloso dei nemici. Da giorni circolano in Rete video di iraniane che bruciano il velo e si tagliano i capelli nei luoghi pubblici. Stanno facendo una richiesta inconcepibile per chi è al potere: uscire di casa senza coprirsi la testa. Dopo Mahsa, un’altra ventenne che era diventata simbolo delle proteste, Hadith Najafi, è stata uccisa a colpi di pistola durante le manifestazioni. Finora, mentre scrivo, si contano 133 vittime negli scontri.
L’Iran di oggi è pieno di donne colte e capaci nei loro diversi ambiti. Ma i loro corpi sono regolati dal Governo e controllati dalla Polizia della Morale. Questi cittadini di serie B chiedono di sentire il vento tra i capelli. Nella loro battaglia per la libertà è in gioco non solo il loro futuro, ma quello di un intero popolo.
Le nostre società democratiche hanno dei diritti, frutto di molte lotte. Tra questi c’è l’emancipazione delle donne, e abbiamo impiegato tanto tempo per raggiungerla. Indossare il velo forse sarà per alcune una libera scelta, come rivendicano i paladini del “relativismo culturale”, ma un simbolo legato alla riduzione in schiavitù non può coincidere con i nostri valori. Almeno non con i miei.
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