Rose McGowan: "Dalle mie battaglie nasce una nuova vita"
di ARMANDO GALLO, da LOS ANGELES
Rose McGowan è appollaiata su una sedia di bambù, ha i capelli corti biondo platino tirati all’indietro e i suoi occhi marroni fissano lo schermo attraverso il quale ci stiamo parlando. L’attrice è a Cobá, sito archeologico del Messico orientale: «Sento che sto guarendo da questi tre anni di battaglie», dice subito. «Mi sono rivista nelle foto degli ultimi mesi e avevo il viso davvero provato. Ora che tutto è finito mi sento meglio», dice. Rose si riferisce alla sentenza del tribunale di New York nel processo all’ex produttore di Hollywood Harvey Weinstein, condannato a 23 anni di carcere per crimine sessuale e stupro di terzo grado. Fu proprio McGowan, nell’ottobre del 2017, una delle prima attrici a denunciare pubblicamente le molestie sessuali subite dal magnate, dando vita al movimento globale antimolestie #MeToo che in questi anni ha rivoluzionato il mondo del cinema e non solo quello.
Per l’attrice e attivista il prezzo da pagare è stato alto: insulti, critiche da parte di ex colleghi, spese legali che l’hanno costretta a scelte dolorose. «Per difendermi dagli avvocati di Weinstein e assicurarmi legali capaci di fronteggiarlo ho dovuto vendere la casa a New York, un posto bellissimo in cui avevo messo tutta me stessa», racconta senza vergogna ora, dal sito archeologico maya immerso nella giungla che è la sua nuova dimora. Dopo il libro Brave. Il coraggio di parlare (HarperCollins) ora McGowan si è lanciata nella musica con Planet 9, un album da ascoltare sdraiati al buio in una sorta di meditazione guidata: l’attrice ha anche destinato il 20 per cento delle vendite digitali al sostegno di alcune organizzazioni impegnate nell’emergenza Covid-19.
Negli ultimi mesi lei ha affrontato due grandi eventi: la condanna di Harvey Weinstein in marzo e poi, come tutti, le conseguenze globali della diffusione del coronavirus. Come immagina il futuro adesso?
«Siamo davanti a un reset globale, possiamo riavviare il mondo. E sono ottimista. Come ci ha insegnato il #MeToo, insieme possiamo superare questo trauma collettivo».
In che modo?
«Dopo questa quarantena abbiamo la possibilità di ripresentarci al mondo in maniera differente, come persone diverse. Possiamo diventare finalmente ciò che vogliamo, senza essere vittime dei pregiudizi della società. In questo periodo dovremmo fare buon uso del nostro tempo e combattere il nostro avversario principale: la paura».
Lei come la affronta?
«La paura è come la ruota di un criceto che gira senza sosta nella nostra testa. In questo momento ho dubbi come tutti, non so che cosa ne sarà della mia vita, come farò a mantenermi, ma vado avanti. Ho sempre con me un pezzo di carta con su scritto “Vaffanculo coronavirus” e ho fatto una lista delle cose in cui credo davvero e di quelle in cui potrei migliorare. E poi c’è Planet 9. L’ultimo brano dell’album si intitola Lonely House, la casa solitaria, e recita: “Anche tu ti senti solo sul tuo pianeta? Ti senti solo e al limite?”. Ecco, tante persone stanno affrontando in questi mesi una solitudine senza precedenti, ma questa è l’occasione per rinascere e ritrovare la propria creatività».
Non tutti sono artisti come lei.
«Non è vero. Se sei un contabile, per esempio, stai già usando la tua creatività per far risparmiare soldi ai tuoi clienti. Se sei un avvocato, ne prendi a piene mani per difendere gli interessi del tuo assistito. La gente si sbaglia quando lega la creatività a mondi definiti come il cinema, l’arte o la musica. Ciò che sei non è quello che si legge sul tuo biglietto da visita, ma quello che conta di più per te».
Per lei contava molto la condanna per molestie del produttore Harvey Weinstein. Che cosa ha provato al momento della sentenza?
«Un senso di pace, perché so che quella persona non può più fare del male a me e ad altre donne. Bisogna considerare che il processo di New York presentava forse i casi più deboli di accuse contro di lui e temevo che sarebbe riuscito a farla franca. Ma grazie a Dio i tempi sono cambiati e la giuria ha capito che quelle donne non erano profittatrici, come qualcuno ha provato a dipingerle, ma vittime».
Ha ripensato al vostro primo incontro nel 1997?
«Si trattò di una colazione alle 10 del mattino. Stavo girando il mio secondo film per la sua casa di produzione, quindi non è che avessi bisogno di un lavoro, ce l’avevo già. Non sapevo nemmeno bene chi fosse, non l’avevo mai visto. Ma la Rose che l’ha incontrato in quell’occasione è morta tempo fa, sono una persona nuova adesso».
Che percorso ha intrapreso per superare quel trauma?
«Avevo una gran paura della mia rabbia e l’ho soffocata per anni, mentre cercavo di sopravvivere a Hollywood dopo che il mio nome era stato messo in una lista nera. Ho lavorato in tv, lì lui non poteva arrivare, ma mi sentivo sempre come fossi un mucchio di polvere. Poi ho deciso che dovevo usare la mia rabbia, farmi sentire. Dopo lo scoppio dello scandalo ero esausta, ma ho pensato: “Se non parlo io, chi altro può farlo?”. Ho trovato il coraggio di espormi per alimentare un movimento globale e ora sono in pace».
A lei come a tante vittime di abusi è stato contestato il fatto di aver denunciato i fatti dopo molto tempo. Può spiegare che cosa si prova in quella condizione?
«È come se qualcuno ti privasse della tua voce. Non riuscire a parlare ti fa stare malissimo perché ti rende quasi complice del tuo aggressore. Io ho passato anni a cercare di essere una persona diversa da quella che avevo dentro di me, ma nessuno mi ascoltava, nemmeno io riuscivo a vedermi. Poi, sei anni fa, mi sono rasata la testa, ho trovato quella voce e tutti mi ascoltavano. Vede, l’errore è pensare che io sia diventata un’attivista per salvare le donne. In realtà io non credo più alla tradizionale distinzione uomo-donna, ma credo negli esseri umani: voglio che ognuno sia rispettato e viva al meglio delle sue possibilità in pace con gli altri».
Attrice, attivista, musicista. Che cosa si sente oggi?
«Io voglio essere solo una persona, che vive a modo suo e combatte per quello in cui crede. La musica adesso mi fa bene e ora spero che questo album, un po’ rétro e un po’ futuristico, faccia a tanti altri l’effetto che ha fatto a me».
Che cosa ci faceva in Norvegia un paio di mesi fa?
«Ero stata invitata a una conferenza per parlare di diritti umani e diritti delle donne. È stato sorprendente: mi aspettavo un pubblico femminile, invece l’80 per cento della folla era composta da uomini. Lì il femminismo è un tema che va oltre i sessi».
Pensa che questo succederà anche altrove?
«Voglio crederlo, perché immaginarsi un mondo più coraggioso è l’unica speranza per crearne uno».
Tornerà al cinema?
«Sto valutando qualche copione, ma sono stata lontana tanto tempo e per anni mi sono dovuta accontentare solo degli avanzi. Ora so che, se dovessi perdere davvero tutto, avrei dentro di me la forza di sopravvivere».
Articolo pubblicato sul numero 23 di GRAZIA (21 maggio 2020)
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