Eleonora Carisi: Il mio matrimonio da It Girl
Eleonora Carisi, una delle influencer più famose al mondo, si è sposata. Ma prima ha posato per Grazia con abiti da sogno (compreso il suo) e ha raccontato del momento in cui, dopo una vita contraria alle nozze, si è convinta a dire sì
Perfetto: intervista subito. Così poi, mentre mi truccano e mi pettinano, posso sbrigare un po’ di lavoro». In questa frase c’è tutta Eleonora Carisi e forse anche gran parte di una intera generazione di donne. Quella che lei, 32 anni, interpreta alla perfezione: ragazze che la vita se la costruiscono da sé. A partire dal lavoro: che, invece di cercare, inventano. Eleonora, torinese, ha creato un sito (joujouvilleroy.com), ha aperto un’agenzia di comunicazione digitale (Grumble) e partendo dalle pagine di Grazia.it (era una delle nostre prime it girl) è diventata una delle più conosciute influencer italiane. Le case di moda la ingaggiano come testimonial, la sua agenda è piena di eventi in cui è ospite, il suo cellulare è il suo ufficio. Anche qui. Adesso.
E che intervista sia, dunque. Subito. A cominciare da una forse inconsapevole bugia. Eleonora dice di non essere emozionata: «Solo agitata». Non è quello che sembra: mi spiace, anzi mi fa contenta dirlo. Lei è qui, sul set fotografico di Grazia (gli scatti li vedete in queste pagine), per un servizio “tutto sposa” alla vigilia delle sue nozze, quelle vere. Eleonora, come sa chi la segue sul web, si è sposata il 31 maggio. Con l’abito di Elie Saab tempestato di perle che vedete qui accanto. Con lo strascico tondo, messo come un piccolo lago ai suoi piedi. Con il corpetto ricamato fitto: quel che basta per coprire, ma non tanto, i tatuaggi a forma di stelle che Eleonora ha sul décolleté. Con lo chignon che in queste pagine non vedete, ma che, sapremo poi, è la pettinatura che ha scelto per la cerimonia. Romantica e dark. Bianca e nera.
Adesso è qui con un’aria concentrata, operativa. Che, però, non riesce a nascondere un filo d’ansia. Non per gli scatti, né per la quantità di vestiti (tutti ovviamente da sposa) che dovrà mettere e togliere. Meno che mai per il lavoro che freme dentro al suo cellulare. Eleonora vibra perché il gran giorno è quasi qui. E oggi è la prova generale, il gioco che ha deciso di fare con noi.
Emozionata?
«Non sarà anche lei come i miei follower che mi immaginano tutta pizzi e bomboniere? Mi hanno tempestato di auguri, sono in fibrillazione. Non li capisco».
Odia i cliché?
«Al contrario. Sono una che andrà in viaggio di nozze quattro giorni in Puglia, per questioni di tempo libero. Ma avrei voluto le Maldive. Un super cliché».
Ragazza sfrontata: capace di sfidare persino l’ovvio.
«Ma sì, perché no? Mi sposo a 32 anni, in bianco, in municipio, a Torino. Alle Maldive rinuncio solo perché sarebbero in piena stagione delle piogge. Sono uno stereotipo vivente».
A chi decide di sposarsi, in controtendenza nazionale, tutto è concesso. Anche essere un po’ spaventata.
«Lo sono, è vero. O meglio lo sono stata. Quando Paolo (Soffiatti, 29 anni, hair stylist , ndr) mi ha dato l’anello, mi sono messa a piangere».
Racconti.
«Partiamo dall’inizio. Io non mi sono mai, mai voluta sposare. Me lo hanno chiesto: ho avuto relazioni importanti, che potevano naturalmente tradursi in matrimonio. Ma io ho sempre detto: “No, non voglio, questa cosa non fa per me”. E lo stesso vale per Paolo. Anzi: lui non aveva mai nemmeno avuto storie lunghe».
E poi?
«Poi ci sono stati i “segni”».
Che sarebbero?
«Coincidenze che ci hanno portato a essere insieme dove e quando non avremmo dovuto: treni che non partivano e che ci obbligavano a stare nello stesso posto, uniti, una notte in più, piccoli contrattempi fortunati. Cose così. E poi quella musica, dappertutto, sempre lei. La sentivamo ovunque».
Quale musica?
«Se glielo dico non ci crede: è Senza fine di Ornella Vanoni. Una cosa super romantica che ci tallonava, voleva dirci qualcosa».
È amore. È amore.
«Appunto».
Sì, ma addirittura il matrimonio...
«È successo così: si avvicinava Natale, quello appena passato, stavo con Paolo da cinque mesi. Eravamo felici, innamorati. Ma per me non c’era nessun regalo in vista. Siamo stati a cena dai miei a Torino, poi a casa nostra. Io ero stanca ed elegantissima. Paolo mi ha detto: “Fruga nella calza, vedi che cosa c’è”. Non c’era un bel niente. Lo ammetto: sono rimasta delusa, mi sembrava uno scherzo cretino. Sono andata a cambiarmi: ho infilato il pigiama più brutto che avevo».
Ben gli stava.
«Aspetti. Paolo mi ha detto di cercare di nuovo nella calza. Sul fondo c’era uno scatolino a forma di cuore. Io di anelli non ne ho mai ricevuti e, giuro, non ho capito che cosa fosse finché non ho aperto e ho trovato questo brillante. Mi sono messa a piangere».
Una scena da film.
«Esattamente. E non è finita. Eravamo sul divano e lui è scivolato in terra: da lì sotto mi ha chiesto di sposarlo. Ho detto sì».
Bel finale. Lui inginocchiato, lei che piange. Musica sul fondo.
«A dire il vero è finita che sono andata a letto e non sono riuscita a dormire».
Preoccupata?
«No: mi pesava l’anello. Non avevo mai portato niente all’anulare sinistro. È una presenza importante, no?».
Molto. Ha ragione: abituarcisi non è banale, ha tutto il peso simbolico di un impegno. Ma eccoci qui. In mezzo a decine di abiti da sposa. Non ha paura di sentirsi un po’ “travestita” in bianco-lungo?
«È un rischio che tutte le spose corrono. Per evitarlo ho scelto un abito che mi fa sentire me stessa. Semplice, con un lungo strascico, con molto pizzo che lo rende prezioso: mi piace che si veda che c’è molto lavoro. Ci sto bene dentro, sono io».
Che cosa si aspetta dal matrimonio?
«Non avevo mai voluto sposarmi finora, nemmeno da ragazza. Quindi non ho mai fatto fantasie in proposito. Non ho sogni. Vorrei solo continuare a vivere come stiamo facendo adesso: io e Paolo. Uniti, divertiti. Vorrei pensare di avere un tetto sulla testa: il posto che mi protegge sempre, la casa in cui tornare. E non voglio una famiglia, non voglio figli».
Le dispiace se le chiedo perché?
«Affatto. Non li voglio perché sono sicura che non saprei crescerli. E sono ancora più sicura di non volere imparare a farlo. Credo di aver preso da mio padre: questa responsabilità non me la riesco a prendere. Per fortuna anche Paolo non ha nessun desiderio di avere un bambino. Io per un figlio proprio non ho spazio mentale, ho un sacco di idee, tanti progetti».
Sentiamo.
«Il primo, a lunga scadenza, è continuare a investire nella mia agenzia di strategie digitali e comunicazione, Grumble. È una cosa in cui credo moltissimo. Poi ho un po’ di progetti, molto diversi, che “bollono in pentola”, come la conduzione di un programma televisivo tagliato sui miei interessi, un progetto di cui non posso ancora parlare».
E la moda?
«Quella è una passione. Ma è solo una parte dei miei interessi, che sono la comunicazione e la condivisione».
Le piace condividere tutto?
«Assolutamente no. Ho messo dei paletti ben precisi. Sui miei social nessuno ha mai visto le cose che io ritengo private per davvero, come il volto di mia madre o quello del mio cane».
Nemmeno il cane?
«La mia cagnolina è mancata da poco. Io non ho nemmeno pensato di mettere questa cosa sui social. Aveva 16 anni, l’amavo e lei mi amava. Prima di andarsene ha aspettato che io tornassi a casa, mi ha salutata. Che cosa avrei potuto scrivere? “Se ne è andata la mia bambina?”. Dai, non si fa».
Mi spiace di averla fatta piangere.
«Non si preoccupi. Io davvero non capisco come ci si possa illudere di condividere un dolore online. L’altro giorno ho visto che un mio amico, un regista straniero molto bravo, ha postato la notizia che suo padre ha delle metastasi. Mi sono chiesta: “Ma perché?”. Eppure lui è una persona che stimo».
Il web scatena strane pulsioni. A volte anche crudeli. A lei è capitato di esserne vittima?
«No. Al massimo qualcuno scrive che sono una stronza. Ma è vero».
Vero?
«Cioè: non lo sono, ma posso sembrarlo. Noi torinesi abbiamo una specie di nero dentro, che ogni tanto salta fuori. Se io mi vesto di rosa, tutta carina, e magari mi fotografano in un momento in cui sono persa nei miei pensieri... Beh, magari in quel momento il nero salta fuori e mi si legge in faccia. E mi fa sembrare un’arrogante, per non dire di peggio».
Mi parli di questo buio.
«È una parte di me. Io faccio una bella vita, in questo periodo una vita bellissima, felice, leggera. Ma ogni tanto ho bisogno di piangere. Ascolto musica che mi commuove, sto con me stessa, con le mie lacrime. Con il mio nero, appunto».
Che non condivide sui social.
«Perché dovrei? Chi mi sta vicino, conosce la mia storia. Sa dei mie buchi, sa che ho avuto un padre assente e tutto quel che ne consegue. Paolo e io abbiamo questo in comune: un’infanzia non proprio bellissima. Forse per questo non vogliamo bambini».
Lei è una delle super influencer italiane. Ma chi ha influenzato lei? C’è una donna che la ispira?
«Mia nonna. Era la persona più elegante che abbia mai conosciuto. Uno chic assoluto, naturale, una cosa pazzesca».
Mi parli del suo neo sopra al labbro. Anche quello è molto chic.
«Mi piace. Ma non lo devo guardare troppo. Se lo fisso a lungo, nella mia percezione si dilata e diventa insostenibile: mi ci perdo dentro. C’è anche chi ha provato a farlo diventare un problema».
Chi?
«Gente che mi ha detto: “Ma che cos’è quella macchia?”. Confesso che ci ho pensato: “Che cos’è? Perché ho quel punto scuro proprio lì?”. Ma adesso lo so: è una parte di me. Imprescindibile».
Una griffe: segno che lei è autentica.
«Grazie».
Il peso dell’anello adesso ha imparato a sostenerlo?
«Altro che. Non lo toglierei per nessuna ragione. Al punto che ho scelto una fede di platino che stesse bene con il brillante. Voglio tenerli tutte e due: giorno e notte. Sempre».
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«Se la strage in spiaggia o il saccheggio alla Stampa sono definiti "resistenza"»: l'editoriale di Silvia Grilli
La resistenza è necessaria con ogni mezzo», «con Hamas fino alla vittoria», «ora e sempre resistenza». Sono slogan che sentiamo nelle piazze di tutto il mondo alle manifestazioni contro Israele.
Per chi li inneggia possono essere innocua teoria, opinioni a favore della Palestina o semplicemente parole urlate per non sentirsi esclusi dal gruppo, non una chiamata alle armi per massacrare i presunti oppressori. Ma c'è sempre chi prende la teoria alla lettera. Domenica 14 dicembre, quegli slogan sono stati scritti con il sangue degli ebrei.
Un padre e un figlio pachistani hanno sparato sulla folla che celebrava il primo giorno della festa religiosa ebraica dell’Hanukkah su una spiaggia famosa per le nuotate al tramonto. Quindici morti e decine di feriti sono rimasti sulla sabbia a Bondi Beach, uno dei posti più belli, pacifici e gioiosi dell’Australia. Il primo ministro Anthony Albanese ha dichiarato che non riesce a spiegarsi tutto questo male. Io credo sia molto spiegabile: per gli invasati che considerano Israele il male assoluto, massacrare gli ebrei è fare giustizia.
È la colpa dei giudei che spinge giovani ProPal a saccheggiare la redazione del quotidiano La Stampa (paradossalmente uno dei più favorevoli alla causa palestinese). Induce quel centinaio di manifestanti a scrivere e urlare slogan terroristi come “Stampa-Morta” o «giornalista sei il primo della lista», mentre una loro guru, Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite, riduce l'assalto a un «monito ai giornalisti».
Nella tradizione ebraica, Hanukkah è la festa della luce, della speranza. Colpire bambini, anziani e adulti che festeggiano la vita non è diverso da quando il 7 ottobre i terroristi di Hamas fecero strage al Nova Festival. Sparare sulla spiaggia in un momento storico in cui c'è qualche passo verso la pace è voler cancellare la speranza nel futuro.
Eppure, ho ancora fiducia che l’umanità possa superare l’odio. Domenica 14 dicembre, in Australia, questa speranza aveva i gesti di un uomo: Ahmed Al Ahmed, fruttivendolo immigrato siriano, che si è precipitato su uno dei terroristi e gli ha strappato il fucile. Aveva le gambe di Jackson Doolan, il bagnino veterano della spiaggia, ex star di Baywatch in Australia, che è corso a piedi nudi per un chilometro e mezzo portando il borsone dei medicinali. Aveva le braccia di tutti coloro che si sono adoperati per salvare le vittime, sollevandole sulle tavole di soccorso che di solito vengono usate per trasportare la gente a riva.
Gli orrori si ripetono, sembrano non volersi fermare. Ma se le persone corrono ad aiutare, se ci sono solidarietà e compassione, c’è ancora speranza nell’umanità.
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Grazia è in edicola con Maya Hawke
Maya Hawke è la protagonista di copertina Grazia in edicola e app. Si è fatta conoscere con la serie Stranger Things, arrivata all’ultima stagione. Ora l’attrice newyorkese figlia delle star Uma Thurman ed Ethan Hawke, girerà il nuovo capitolo di Hunger Games dove vuole portare l’energia di chi non ha paura di crescere.
Questa settimana intervistiamo alcune icone di Hollywood. Incontriamo Zoe Saldana, al cinema nel ruolo di Neytiri, la madre combattente di Avatar. Parliamo con Ariana Grande, in corsa ai Golden Globe con Wicked e le attrici premio Oscar Jodie Foster e Laura Dern.
Il 2025 ha cambiato noi e la Storia. Grazia lo ripercorre. Dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca alla guerra a Gaza. Dalle vittorie di Jannik Sinner all’elezione del primo Papa americano fino alla scomparsa di icone come Ornella Vanoni e Giorgio Armani.
Grazia ha scelto i personaggi da tenere d'occhio nel 2026: le sciatrici Sofia Goggia e Lindsey Vonn attese alle Olimpiadi invernali, María Corina Machado, premio Nobel per la Pace che potrebbe cambiare le sorti del Venezuela, Lady Gaga in arrivo in concerto in Europa e molti altri. Da Can Yaman a Jacob Elordi, da Timothée Chalamet a Jeremy Allen White, che cos’hanno in comune i nuovi sex symbol? Mettono d’accordo mamme e figlie. Grazia ve li racconta.
Abiti dorati, trasparenze, ricami e dettagli preziosi. Grazia ha scelto i capi che ti rendono protagonista delle notti di festa e delle serate più speciali. Ma anche lo stile più cool per il 2026.
E nelle pagine dedicate alla bellezza trovate tutti i segreti per brillare: dalle strategie effetto freddo per una pelle più tonica alla scelta del fondotinta e del correttore giusti per illuminarla.
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Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"
Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.
Che rapporto ha con il passare del tempo?
«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».
Davvero?
«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».
Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.
«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».
Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?
«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».
Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?
«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».
Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…
«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare».
Come mai?
«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».
Che cosa le disse al ritorno?
«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».
Ha fatto lo stesso con i suoi figli?
«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».
Che rapporto ha con la psichiatria?
«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».
Com’è andata?
«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».
E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?
«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il corpo».
Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?
«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».
Che cosa di lei non hanno mai capito finora?
«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».
Com’è la sua giornata ideale?
«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».
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Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli
Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».
A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.
La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.
Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».
Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela
RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)
1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».
2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni?
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».
Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com
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