È più difficile imparare a stare zitti o a stare fermi?
Non sono un’appassionata del silenzio. Detesto il rumore e ancora di più le urla. Ma l’assenza di suoni mi inquieta. Forse dovrei partecipare al seminario di Nicoletta…
Ma per spiegarvi bene devo partire dall’inizio. Mi è successo, qualche giorno fa, di svegliarmi all’alba: era proprio il momento del passaggio dal buio alla luce, tutto taceva ed era commovente. Ma anche, contemporaneamente, triste e un po’ inquietante.
Le vacanze stanno finendo, direte voi. Sì, certo, può essere una spiegazione. Però, qualche giorno prima, al mare, nuotando a dorso e quindi con le orecchie nell’acqua, avevo avuto la stessa sensazione: prima un senso di calma assoluta, subito dopo però quel vuoto era diventato spiacevole e un po’ doloroso. Come un piccolo distacco dalla vita.
Quindi, quando ho letto che l’Accademia del silenzio (di cui Nicoletta Polla-Mattiot, il mio amato condirettore attualità, è uno dei fondatori) ha organizzato alla libera università di Anghiari un corso per “imparare il silenzio”, ho pensato che avrei dovuto iscrivermi, per superare il mio problema. Certo, tra lezioni, incontri e discussioni, una piccola contraddizione c’è e cioè che, anche per parlare del silenzio, bisogna usare le parole…
Ma insomma, in questi tempi chiassosi e urlati, il tema è certamente importante e significativo, anche se per me, personalmente, forse più che imparare a stare zitta, servirebbe un seminario per stare ferma, o meglio ancora: per non fare.
Ma temo che le due attitudini siano correlate perché entrambe rimandano a una condizione riflessiva, meditativa, insomma alla capacità, appunto, di accettare il “vuoto” per rientrare in contatto con se stessi, per selezionare, fare pulizia e quindi rigenerarsi.
Capisco, da un punto di vista teorico, ma non mi viene tanto spontaneo… Però sono d’accordissimo con uno dei presupposti della riscoperta/valorizzazione del silenzio, e cioè che esiste una comunicazione non verbale, fatta di gesti, sguardi, insomma dell’espressività del corpo.
Concetto ormai così ovvio da essere quasi diventato banale. Mentre non sapevo che si parla già di anoressia verbale, quando il non parlare non è scelta, ma un’incapacità, un’impossibilità. Il riposo acustico, con il tipo di vita che facciamo noi cittadini, spiegano gli esperti e non si può non essere d’accordo, è anche riposo mentale.
“Sentire” il silenzio fa bene al corpo e alla mente, d’altronde è alla base della meditazione. Ma per me, che ho iniziato yoga dieci volte e dieci volte ho smesso alla seconda lezione, quando mi insegnavano a sentire il respiro, di nuovo è pura teoria.
D’altronde, scusate, ma se fosse una disposizione così naturale del genere umano, perché maestre e mamme trascorrerebbero la vita a ripetere: “Bambini, state zitti!”? Però è vero che l’eccesso di parole può essere deleterio.
Pensate solo a quello che è successo negli ultimi vent’anni nel rapporto uomo-donna: ci siamo talmente parlati addosso, discutendo per lo più dell’incapacità dei maschi di comunicare, che abbiamo perso di vista la sostanza del rapporto tra i sessi.
Che con le parole ha poco a che spartire. Le persone più silenziose sono spesso le più autorevoli, sostengono in molti: pensano, riflettono e non sprecano energie a cercare di convincere gli altri. È una possibilità.
Ma un dubbio mi attanaglia da sempre: e se invece semplicemente non avessero niente da dire?
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