Disillusi e precari: che futuro diamo ai nostri ragazzi?
«L’Italia ha bisogno dei voi», ho scritto due settimane fa . «Non è vero», risponde una lettrice. «Lo dico con ragione di causa perché io faccio parte di quella schiera di giovani senza prospettive». Che dolore.
Quella di Rachele è una lettera lucidissima e quindi, proprio per questo, ancora più disperante. «Faccio parte di quel nutrito gruppo di ragazzi laureati al quale le aziende italiane non si degnano nemmeno di inoltrare una mail preimpostata di rifiuto all’invio di un curriculum vitae. La mia storia è uguale a quella di tanti: stage senza rimborso che durano 10-12 mesi, lavori “a cottimo” sottopagati in nero, finti apprendistati, una mole immensa di competenze buttate all’aria. Australia, America, perfino la Luna sono più appetibili di questo Paese che purtroppo amo ancora. Prima di un lavoro, abbiamo bisogno di un’opportunità. Perché senza sono tutte chiacchiere a vuoto».
E, tenera, conclude così: «Nonostante i toni lascino immaginare tutt’altro, la saluto in maniera cordiale». E adesso cosa le rispondo? Che ha ragione? E allora? Che mi dispiace, ma non può prendersela con me, perché non è colpa mia? Ridicolo. E anche falso, perché in qualche modo sento che noi adulti non stiamo facendo tutto quello che potremmo e dovremmo per i giovani.
Cerco dei dati, per documentarmi meglio, e verifico, ahimè, che la disoccupazione giovanile in Italia è in costante crescita e ormai supera il 25 per cento, a fronte del 19 nell’area euro, il 18 negli Stati Uniti e addirittura il 10 in Germania. Questo vuol dire che per ogni disoccupato adulto ce ne sono 4 giovani. E per le donne la situazione è anche peggiore.
Certo la crisi non aiuta, ma il problema è più antico e più profondo ed è in una contraddizione tragica del nostro mercato del lavoro che protegge, e tanto, chi il lavoro ce l’ha già a scapito di chi con questo sistema non entrerà mai perché le aziende sono terrorizzate, a maggior ragione di questi tempi, dalle assunzioni a tempo indeterminato.
E così si sono creati due mercati paralleli e, quel che è peggio, un assurdo equilibrio (se vogliamo definirlo tale) per cui il lavoro sicuro e la pensione, abbastanza sicura, del genitore garantiscono un minimo di supporto ai figli che non avranno probabilmente mai né l’uno né l’altra.
Figli che infatti vivono molto più a lungo in famiglia (e fino a età quasi imbarazzanti), si sposano sempre più tardi e rimandano più possibile la nascita di un figlio (e mi raccomando che sia solo uno). Così giovane finisce, per forza di cose, a coincidere con precario, o comunque non indipendente. Cosa fare?
C’è una sola soluzione, sostengono esimi economisti, e cioè riformare radicalmente il mercato del lavoro, abolire la vecchia filosofia del “posto fisso”, combattere la gerontocrazia imperante (va be’, questo non solo in ambito professionale) unificando o almeno avvicinando quei due mercati paralleli che vedono da una parte gli adulti, i “genitori”, con tutte le tutele e i privilegi, e dall’altra i giovani precari.
Fino a oggi nessun governo ha avuto il coraggio o la forza per farlo, ma il rischio che stiamo correndo è ben più grave di quello economico. Ed è quello che ci racconta Rachele: una generazione di ragazzi sfiduciati e disillusi, che amano il proprio Paese, ma sempre più spesso scappano all’estero per trovare quello che non hanno trovato qui.
Vi prego, diteci che dopo le quote rosa non saremo costretti a combattere per le quote giovani!
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