Cristiana Capotondi: «Dentro di me c’è un oceano di libertà»
La fisiognomica, disciplina che deduce dall’aspetto di una persona le sue caratteristiche psicologiche e morali, è del tutto inaffidabile. Prendiamo Cristiana Capotondi: una bellezza alla Simonetta Vespucci, colei che fu la musa del pittore Sandro Botticelli e lo ispirò nei ritratti femminili, a partire da quello più somigliante a Cristiana, la celeberrima Nascita di Venere.
Stesso ovale leggiadro, stessa espressione dolce e remissiva persa in sogni spirituali, vagamente malinconici. Eppure, Cristiana è tutt’altro. Alla tenerezza dei suoi lineamenti corrispondono invece forza, vigore, volontà. Una femminilità moderna e piena di determinazione. Capace di schierarsi dalla parte giusta del mondo. In tv la vedremo nella serie Le fate ignoranti. Ed è anche il volto della nuova campagna di Ypsilon 1.0 FireFly 70 CV Start&Stop Hybrid Alberta Ferretti e protagonista del video Punch, lanciato dalla stilista insieme con Lancia a difesa dei diritti delle donne vittime di violenza.
Partiamo dall’inizio, dalla formazione. I suoi genitori?
«Roma, Trastevere. Mamma di origine ebraica, farmacista; papà cattolico che segue le attività della basilica di Santa Maria, rappresentante di attrezzature per auto. Una sorella che ha due anni più di me».
Com’era Trastevere 40 anni fa?
«Il giorno in cui nasco, il 13 settembre 1980, in piazza San Calisto, a due passi da casa, viene ucciso il Libanese, uno dei protagonisti di Romanzo criminale. Era un quartiere misto: ceto medio, con una forte presenza della comunità ebraica, ma anche molte famiglie trasferite a Trastevere per stare vicino a parenti detenuti nel carcere di Regina Coeli. Ho frequentato scuole pubbliche e il quartiere mi ha restituito una complessità sociale di cui ancora oggi gli sono grata. Negli Anni 80 e 90, si respiravano boom economico e speranza nel futuro. Ma a Trastevere, nelle palazzine malridotte con appartamenti di 40 metri quadrati occupati da famiglie numerose, ho avuto l’opportunità di vedere l’altro lato della medaglia».
C’erano anche spaccio e tossicodipendenza.
«Non a caso, negli Anni 70 nasce a Trastevere la Comunità di Sant’Egidio. E lì ho cominciato a frequentare il nostro parroco, don Vincenzo Paglia, ora arcivescovo a capo della Pontificia accademia per la vita. In quegli anni, andava a raccogliere i ragazzi per strada. Siamo ancora in contatto».
La sua carriera è iniziata molto presto. Come è successo?
«Succede che nella mia parrocchia, Santa Maria in Trastevere, arriva la Rai per girare un servizio sugli scout. Io ero una ragazzina molto estroversa, con le mie amiche facevamo degli spettacoli in casa, sfilate con modelli creati usando lenzuola e tovaglie delle mamme. Quel giorno, con la troupe mi comporto con spontaneità. Alla fine della giornata, don Paglia dice ai miei che sono stata bravissima e che gli operatori della Rai si erano complimentati perché ero stata utile».
Pensare che lei ha un aspetto da timida.
«Oggi sono più riservata, ho imparato il piacere dell’ascolto. Ma sono partita da una totale mancanza di timidezza. Amavo il gioco, anche con i maschi: la pallavolo, la bicicletta, il calcio a villa Sciarra e villa Pamphili, il bagno nelle fontane. Ero una preadolescente con le ginocchia sbucciate, l’amica furbetta con cui condividere i giochi. In pratica, un maschiaccio».
Torniamo all’inizio della sua carriera.
«Avevo un carattere forte, era difficile dirmi di no. A 13 anni, chiedo e ottengo di collaborare con un’agenzia di spettacolo. Così esordisco nella pubblicità del Tegolino Mulino Bianco e in Amico mio, una serie della Rai».
Com’è diventare popolare, famosa, da preadolescente?
«Mi prendevano in giro, mi chiamavano con il nome della merendina. Però ho risposto razionalizzando. Non potevano ostacolarmi nella mia voglia di fare l’attrice. Ero molto determinata. Anche nel rapporto con il cibo: non ho mai avuto problemi alimentari perché volevo crescere, diventare grande, e per farlo bisognava mangiare».
E le piace mangiare o è sempre a dieta, come molte attrici?
«Nooo! Amo cucinare e il mio luogo preferito è la cucina. Da piccola osservavo mia nonna e la nostra tata di Alatri mentre cucinavano: ho imparato tantissimo da loro. L’imprinting che mi hanno lasciato è: “Non sia mai che viene qualcuno”. Deve essere tutto in ordine e in casa bisogna sempre tenere qualcosa per poter cucinare per cinque o sei persone».
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Foto di OLIVIER DESARTE - styling di GIANLUCA FRANCESE
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