Bebe Vio: «Abbracciamoci tutti e creiamo un mondo nuovo»
La campionessa paralimpica Bebe Vio è a Viareggio sul palco del Jova Beach Party a duettare con Lorenzo Cherubini, che le vuole un bene dell’anima e la chiama «la mia sorellina». Io la intervisto in una pausa del nostro potente servizio fotografico e vengo travolta da ondate di energia. Beatrice Maria Adelaide Marzia Vio Grandis, 25 anni, nata a Venezia, cresciuta a Mogliano Veneto, portabandiera italiana nel mondo, è una schermitrice con molte medaglie, orgoglio del nostro fioretto, commendatrice al merito della Repubblica. Ci sono anche una stella che porta il suo nome e una Barbie con le sue sembianze.
Bebe, com’è la tua famiglia e come ti sei appassionata alla scherma da bambina?
«Ho un fratello maggiore e una sorella minore. Io e i miei fratelli abbiamo iniziato a fare sport da molto piccoli vivendo tutto come una squadra. Con i nostri genitori siamo molto uniti: mamma è il capitano che comanda tutti noi, papà è l’allenatore che elabora strategie. Noi fratelli siamo molto legati, anche se viviamo in tre città diverse: Nicolò a Mestre, io a Roma, Maria Sole a Milano. Con la scherma ho iniziato per errore. Avevo sbagliato porta, era una scena tipo Sliding Doors: stavo cercando l’uscita e sono entrata in quella palestra. Erano tutti bianchi, non sapevo che cosa fosse».
Quanti anni avevi?
«Cinque. Sono entrata e mi sono innamorata».
Qual è la prima immagine della scherma che ricordi?
«È un mix di varie emozioni. La scherma ha un odore particolare. C’è una puzza terribile nelle palestre, ma per noi è il profumo preferito. E c’è il rumore delle lame che si scontrano l’una con l’altra, quello dei piedi sulla pedana, la gente che urla, piange, ride. Tutte queste persone che si muovono, si saltano addosso, corrono. È bellissimo».
Ricordi un viso in particolare?
«Il mio primissimo allenatore: Gastone Gal. Mi ha fatta innamorare della scherma. Ho iniziato con lui, poi negli anni ho avuto altri maestri e mi sono spostata in differenti città per seguirli. Adesso abbiamo trovato un equilibrio tra allenatori, preparatori atletici e medici: la squadra è perfetta. Sono riusciti a fare un miracolo a Tokyo. Io venivo fuori dall’infortunio e riuscire a rimettermi in sesto fisicamente e mentalmente in così poco tempo è stato un miracolo. Nella mia vita sono seguita da tanti team: la famiglia, gli amici, la scherma. Sono arrivate tante cose, tutte belle. Sono circondata da meravigliose squadre».
Che cosa ricordi di quel novembre 2008, quando avevi 11 anni e sei stata ricoverata dopo essere stata colpita dalla meningite?
«In realtà è un po’ un accendi e spegni. I miei genitori hanno immagini molto più specifiche, io ho la fortuna di ricordare tutte le cose belle, le persone stupende. I miei fratelli venivano a trovarmi tutti i sabati sera. Ho incontrato medici che mi hanno salvata anche nel farmi vivere bene quel momento. Le sere prima delle operazioni importanti non erano mai bei momenti, tra le droghe pesanti che mi davano e il non sapere se sarei uscita dalla sala operatoria. Cercavano di farmi ridere, facevano degli spettacolini. Mamma mi portava di nascosto le bistecche da fuori dell’ospedale, guardavamo I Cesaroni, Una mamma per amica in televisione. I miei compagni di classe mi mandavano gli appunti, perché non volevo perdere l’anno scolastico. Studiavo, venivano i professori in camera in ospedale ed era anche comodissimo perché, facendo le lezioni da sola, ero più avanti dei miei compagni. In quel periodo tutti andavano bene in classe, perché io mandavo loro le verifiche prima. Quando sono uscita dall’ospedale è stato bellissimo perché era il giorno prima del mio compleanno, sono andata a vedere mio fratello a una partita di calcio, poi sono tornata a scuola e mi dicevano: “Ma come fai?”. Insomma, un sacco di cose belle!».
Che emozioni conservi dell’ospedale? Un odore, una faccia?
«Mi piaceva l’odore prima di entrare in sala operatoria, c’è un’adrenalina tutta sua in quel momento».
In quegli istanti provavi paura o speranza?
«Sempre speranza, perché sapevo che ogni volta sarei uscita dalla sala operatoria con qualche pezzo in meno, ma più vicina alla dimissione dall’ospedale. Sì, le amputazioni e altro, però erano per risolvere il problema. Non la vivevo come “oddio, sto andando a morire”, ma come una possibilità in più di sopravvivere o vivere meglio».
Hai questa forza, questa simpatia, questa capacità di far diventare una cosa in meno una cosa in più. Però ci sono anche i momenti neri, e nei momenti neri come sei?
«Una rompiballe, probabilmente. La mia fortuna nei momenti neri è avere la squadra intorno: non mi danno neanche il tempo di ritrovarmi in quella situazione che è più mentale che altro. Io ho amiche molto strette che, nel periodo in cui non stavo benissimo, dicevano: "Vuoi piangere? Okay, hai tre minuti perché poi dobbiamo tornare a quello che stavi facendo. Piangere non serve a nulla, sfoga tutto, entro tre minuti devi decidere come lavorare per risolvere il problema." Se hai gente così intorno, è impossibile rimanerci, in quei momenti. Una delle persone indispensabili per il mio recupero prima di Tokyo è stato Peppone, il mio allenatore. Io piangevo perché faceva male e non ce la facevo. Lui credeva in questa vittoria molto di più di me. Io avevo paura di neanche arrivarci, all’Olimpiade. Però se hai persone intorno con l’obbiettivo in testa, fanno di tutto per farti arrivare là. Mentre mi allenavo con esercizi che mi facevano male a livello fisico e stavo lacrimando, Peppone con una mano mi asciugava la lacrima, con l’altra mi dava una pacca sulla spalla dicendo: “Forza, riparti!”. Tutti abbiamo momenti difficili, però se hai la fortuna di avere intorno persone con il tuo stesso sogno che vogliono portarti là, sai che ti puoi affidare al cento per cento. Che siano amici, allenatori o famiglia, sai che vogliono farti affrontare quel momento perché non vedono l’ora di provare emozioni diverse».
Continua a leggere l’intervista a Bebe Vio sul numero di Grazia ora in edicola
Testo di SILVIA GRILLI - foto di LEANDRO MANUEL EMEDE - styling di NICK CERIONI
© Riproduzione riservata