Per la serie #onmyvanitytable incontriamo Lady Violante: "your neighbour next door, but better dressed"
Raccontare Sandra è come sfogliare un libro che già dalle prime battute sai che ti porterà in luoghi sconosciuti, affascinanti e allo stesso tempo profondamente familiari.
Ci siamo scritte e parlate per mesi, raccontandoci quotidianità e ridendo parecchio, stabilendo un legame. Perché solo così può funzionare con lei. Schietta, generosa, determinata. Se decide di accoglierti lo fa senza riserve.
Lei, che è la quintessenza della riservatezza, ci ha aperto le porte del suo “archivio” (non possiamo chiamarlo semplicemente armadio) della memoria. Per ogni abito c’è un ricordo preciso, una sensazione. Lo stesso succede con il make up che ha la valenza di un abito perché “truccarsi è come vestire il viso”.
Come nasce Lady Violante?
Bisogna andare un po’ indietro nel tempo e ci sono stati degli step. Alcuni amici che lavoravano nella moda mi hanno suggerito di aprire una finestra per provare a condividere il mio amore per la moda. Sono una persona molto privata - e continuo a esserlo - ma questo modo di raccontarmi sui social mi ha aperto nuove strade. Tutto è iniziato almeno cinque anni fa grazie al mio viscerale amore per Dolce & Gabbana. Sai che all’inizio è stato un vero scontro? Poi è diventata una storia d’amore. Per una donna come me Dolce & Gabbana sono stati quello che volevo gridare al mondo attraverso gli abiti. La gioia, i pattern, i colori, l’italianità. Mi ricordo ancora la prima volta che siamo entrati da Dolce & Gabbana. Abbiamo chiesto alcuni capi in taglia 48. Ci tengo a sottolineare, che è un’azienda che arriva fino alla 52 tramite special order e che hanno appena fatto sfilare Ashley Graham per Alta Moda. Ma dicevamo, una settimana dopo le mie richieste in negozio, ricevo una telefonata. “Signora la nostra azienda non tratta la sua taglia”. Ero in bicicletta: “Scusi, lei è davvero sicuro di volermi dire questo?”. “Sì mi è stato detto di dirle così”. Di cinque vestiti che avevo chiesto, mi avrebbero consegnato solo una cintura. Era il mio primo vero impatto con il mondo della moda. E la risposta era quelle come te non le vogliamo. Era stata un’uscita infelice di un commesso inesperto ma, comunque, arrivata a casa la furia ha cominciato a montarmi dentro. Mi sono seduta al computer e ho scritto una email. Specificavo che questa storia l’avrei raccontata a qualunque giornale sarebbe stato disposto ad ascoltarmi. Non mi sembrava giusto che si proclamasse amore per le forme e per la mediterraneità per poi negarla di fatto. Tempo sette minuti, suona il mio telefono. Non rispondo. Poi ricevo una chiamata da un cellulare e a quel punto ascolto la voce dall’altra parte “Sono Mario Rigo, il direttore ad interim della Boutique di Via Spiga”. Andiamo avanti una decina di minuti prima di arrivare a una specie di accordo e prendiamo un appuntamento. Mi sono presentata dicendo “Buon giorno sono la taglia 48”. Lui, in realtà retail project manager dell’azienda, nel tempo è diventato un mio carissimo amico e ancora oggi mi dice che quel giorno è stata davvero tosta la gestione della situazione. Non avevo nessuna intenzione di cedere a quel tipo di ingiustizia. Gli abiti che desideravo sono stati fatti con special order e altri recuperati da boutique sparse in Europa. Per cinque, sei mesi siamo andati avanti annusandoci a vicenda ma alla fine abbiamo costruito un rapporto di grande rispetto reciproco. Però mi domando: perché sono la persona che sono ma chissà quante volte le donne si sono sentite rifiutate perché non rispondevano a determinati requisiti. Bisogna chiedere quello che ci spetta. Non trovo giusto che la moda debba dettare un solo canone estetico, una sola taglia. Secondo me deve sapersi adattare a tutti i tipi di donne e se entro in un negozio voglio essere seguita con attenzione, non respinta.
Ma infatti è interessante che tu - nell’era degli shop online - abbia così a cuore il rapporto a tu per tu con le persone. Spesso si evita come la peste perché raramente trovi qualcuno che sappia indicarti cosa ti sta bene, sembrano solo preoccupati di venderti il capo.
Acquisto spesso online e mi diverto ma per me è importante trovare persone che ti sappiano indirizzare e con le quali ti prendi, come è successo con Dolce & Gabbana. Dopo l’inizio che ti ho raccontato ho trovato la persona giusta ed è stato un vero percorso. Ditemi cosa c’è di più personale di una persona che ti veste e conosce la tua fisicità? Vivo il rapporto coi brand che amo come una specie di cerimonia. Da Versace e Gucci sapevano che sareste venute a intervistarmi e mi hanno mandato questi splendidi fiori come augurio. Per me è un gesto di cura stupendo, è la prova che la moda è fatta anche di persone che ti e si sostengono.
Sandra’s closet
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Cosa ne pensi dei total look?
Non me ne parlare proprio a meno che non siano una mia scelta o io venga scelta come brand ambassador, non mi convincono. Nel mondo degli influencer sembrano la normalità ma per me così si sacrifica la personalità nell’abbinare seguendo il proprio estro. Non mi piace quando mi dicono cosa dovrei fare, figurati un total look imposto! Voglio avere il lusso di scegliere chi, come e quando. Trovo troppo importante essere credibili e non voglio fare qualcosa solo per farlo.
Con quali altri brand hai costruito un rapporto che ti soddisfa?
Con Gucci e Prada. Anche lì ho trovato persone con le quali mi sono sentita in sintonia. Prada crea le “teline” per gli abiti su misura. Danno la possibilità di ottenere “abiti prova” che ti consentono di capire come potrai effettivamente stare prima di farli cucire. Dior, che per me è amore eterno e immutabile e, ultimamente, Versace che sto scoprendo con grande piacere e che mi ha fatto rituffare in ricordi importantissimi. Poi amo follemente gli abiti da sera. Parlo proprio di quelli con gli strascichi e per i quali ci vuole molta cura anche nella manutenzione. Te lo dico, ci andrei a fare la spesa pure con una corona in testa e mi sentirei perfettamente a mio agio!
Una delle foto che ci ha fatto innamorare di te è quella scattata sul Machu Picchu con quel meraviglioso abito che vola nel cielo azzurro. Raccontaci di più.
Fai conto che eravamo ai piedi della montagna in un posto molto spartano ma, soprattutto, dalla sera prima diluviava. Mi ero portata questo abito che è un sogno fatto di chiffon e che amo moltissimo. Faccio l’errore di non indossarlo subito. Lo infilo in uno zainetto e vado al varco del Machu Picchu. Dopo aver passato i controlli chiedo “Dopo potrei cambiarmi?”. Errore madornale numero due. Mi tengono quaranta minuti bloccata chiedendomi quali siano le mie intenzioni e cercando in tutti i modi di dissuadermi con svariate argomentazioni. E io a spiegare che voglio semplicemente fare una foto per celebrare la bellezza con la bellezza. Alla fine la mia sincerità ha pagato e mi hanno lasciato fare. Da una parte ho capito le loro resistenze, è un luogo sacro. Dall’altra mi ha fatto piacere che si siano resi conto che le mie erano intenzioni positive. Pensa che ho anche incontrato alcuni dei miei followers sulla cima del Machu Picchu. Quella è stata davvero un’esperienza surreale ed è successo anche in Bolivia nel deserto di sale, un luogo magnifico e suggestivo. Magie di Instagram.
Come vivi la tua percezione dell’immagine rispetto a Instagram?
Nelle foto è normale che mostriamo una parte di noi stessi che ci sembra ideale ma è umano non essere così 24 ore al giorno. Mi ci devo sempre, sempre riconoscere in una foto o almeno devo poter ricordare perfettamente il motivo per cui ho scelto di pormi in un particolar modo. Anche a distanza di tempo. Vengo da una famiglia di donne con una spiccata cura del sé. Mia nonna è stata una delle prime donne a guidare un’auto nella mia città d’origine e lo faceva coi guanti bianchi in pelle per non far scivolare il volante. Mi ha insegnato che non si va in aereo se non vestiti a modo. Quando sono andata in Perù ho dovuto indossare per la prima volta una tuta - sono 18 ore di volo, non c’era alternativa - mi sono sentita una specie di traditrice e molto a disagio. Questi insegnamenti mi sono rimasti dentro come un’impronta. Amo le linee classiche e ho imparato a miscelare pattern e colori col tempo. Nel mio armadio non c’è qualcosa che regge solo una stagione. Un capo ti deve accompagnare tutta la vita. Non sono schiava dei trend, anzi. Come per il mio vestito da sposa: ho voluto che superasse il test del tempo, ho voluto immaginarlo dopo vent’anni e pensare che mi sarebbe potuto piacere come la prima volta che l’ho visto. Un’altra regola che mi ha inculcato mia nonna è: una cosa ma giusta. Non cento e inutili. La tentazione del fast fashion è proprio questa. Bisogna stare attenti. Anche in quel campo meglio sceglierne una che sentiamo nostra. Poi bisogna anche chiedersi se quello che si sta acquistando aggiunga effettivamente qualcosa al nostro guardaroba. La mia vera comfort zone sono i vestiti. Poco altro mi fa sentire a mio agio come un vestito intero. Il primo shooting me lo ricordo ancora: lo avevamo fatto per il mio sito di appoggio (che non ho il tempo di seguire ma non si sa mai) ed ero in Dolce, per me - ripeto - un richiamo irresistibile e indossavo proprio un abito intero.
Haters: come li gestisci?
Ho la pelle dura e sono sopravvissuta a una guerra che ha distrutto il mio amato Paese di origine per cui la mia personale scala di valori è molto chiara ma c’è una cosa che ho capito analizzando le persone che mi attaccano. Quello che scrivono racconta più di loro che di me. Mi sono resa conto subito che avrei avuto reazioni contrastanti perché c’è sempre stata una sostanziale differenza tra me e la maggior parte delle persone che amano la moda, il peso. E torniamo sempre lì, come se il mio peso potesse definirmi. All’inizio mi sono arrivati commenti negativi di una tale violenza che mi sono chiesta: ma perché? E poi ho pensato sai che c’è? Adesso comincio a rispondere. Chiedevo: ma che problema vi dà la mia taglia? E il messaggio che passava immancabilmente nelle loro risposte era quello che io mi sarei dovuta nascondere, che non avrei mai dovuto mostrarmi. Gli idioti prima ti costringono al loro livello e poi ti uccidono con l’esperienza. Perché l’idiota ha molta esperienza nell’essere idiota. Li sconcerta molto però l’educazione e la fermezza con la quale rispondo ma soprattutto li destabilizza quando non ti infili in una caverna a piangere. Se ti mostri per alcuni tutto sembra poter essere lecito. Ma chi lo ha detto? L’un per cento della mia vita è su Instagram e realmente si può pensare di conoscermi? Mi è capitata anche una persona che in privato ha cercato di molestarmi sessualmente. Ma davvero pensiamo di rimanere impuniti qualsiasi cosa facciamo online? Ho una rete di protezione notevole ma penso alle ragazze più fragili, è inquietante questo modo di approcciarsi di alcune persone.
Il linguaggio conta parecchio quando si ricevono commenti negativi, soprattutto verso le donne in generale.
Il linguaggio e come vengono trattate le donne in alcuni casi andrebbero rivisti. Tra l’altro non sono solo gli uomini a essere aggressivi. Anzi. Se una donna ha successo viene scannerizzata: quale taglia indossa, chi frequenta, perché. Non capisco il motivo per cui si debba essere per forza etichettate, commentate, criticate. Se noi stesse consentiamo agli altri di farlo perché lo facciamo anche tra di noi, dobbiamo impegnarci a smettere. Cercherò e mi sforzerò sempre di rispettare senza giudicare. Quando sento parole come outsider mi chiedo: ma essere originali è una colpa? Ampliamo gli orizzonti invece che chiuderci dentro ai ghetti come il mondo “curvy”. Fa molto comodo vederlo come qualcosa di esterno. Da qualche parte mi ricordo di aver letto che sono le ciccione a voler sempre celebrare la diversità del corpo. Semmai vogliono che si smetta di essere ossessionati dal loro peso qualsiasi esso sia e qualunque sia la ragione. Siamo tutti insicuri ma non mi sento meglio se punto il dito verso le insicurezze degli altri. C’è molto lavoro da fare in questo senso.
Sandra’s vanity table
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Tu sei appassionata di beauty e curi molto la pelle, raccontaci la tua routine.
Ho scoperto il brand Dr Barbara Sturm su Net-a-Portér. Si sposa con la mia pelle e si tratta di cosmetica molecolare. La mia pelle ha bisogno di nutrizione. Qui a Milano siamo pieni di inquinamento e lo scrub, il siero e le ampolline di acido ialuronico, sono una mano santa. Amo anche tutti i nuovi sieri Dior, sono eccezionali coprono praticamente tutte le mie esigenze a seconda dei casi e delle necessità. Mi piacciono anche le preparazioni di alcune farmacie con alti concentrati di principi attivi. Poi la protezione solare, essenziale per evitare le macchie. Uso Isdin con SPF 100 che aiuta moltissimo la mia pelle chiara. In generale, cerco di avere un rapporto sano con la bellezza perché se diventa una schiavitù, è un problema. L’unica schiavitù possibile per me è l’amore.
E per il trucco?
C’è stato un periodo in cui avevo l’ossessione dei pigmenti e li ho comprati in qualsiasi colore. Adesso ho una predilezione per i quad di Dior che hanno colori che si abbinano a quelli dei miei occhi. Adoro truccarmi da sola: ho cercato di imparare dai make up artist e dai tutorial. Mi piace il risultato finale con le sopracciglia ordinate, trovo che diano armonia ai tratti del viso. Colleziono make up perché mi piace proprio. A volte sperimento e faccio delle combinazioni di colore un po’ azzardate ma poi torno ai miei classici. Curo molto la pelle perché mi sembra che sia il primo step per far risaltare il trucco ancora di più. Truccarsi è come vestire il viso.
Ti va di raccontarci cosa significa la moda nella tua vita?
Quando è uscita la collezione Tribute di Versace per me è stata un’emozione fortissima. Mi ha riportato indietro negli anni. Avevo 16 anni e nello stesso periodo più o meno morirono Gianni Versace e Lady Diana che avevo incontrato in una sua missione sulle mine antiuomo. Fu pazzesco vederla dal vivo. Negli anni della guerra in Jugoslavia nel mio Paese non filtrava nulla del mondo esterno. Non entrava niente, non usciva niente. Non ho visto la mia famiglia per quattro anni. Un giorno il mio mondo era la buona borghesia che si dava da fare e il giorno dopo si facevano i conti col fallimento delle banche. Vivevo coi miei nonni in una cittadina marittima e i contrabbandieri portavano di tutto, anche i giornali di moda che erano la mia unica evasione. Vedevo le foto delle campagne di Versace e pensavo alla libertà e alla spensieratezza che mi erano negate per la situazione tremenda che vivevamo. Mi domandavo se il mio mondo sarebbe mai tornato come prima della guerra. Era passato talmente tanto tempo che non ricordavo cosa significasse essere liberi. Sembrava impossibile che si potesse vivere normalmente dopo le case bruciate, le persone sterminate, i supermercati vuoti, la lontananza forzata da mia madre. Le greche di Gianni Versace erano i simboli dei miei anni persi. Nel 2018 esce la collezione Tribute e m’innamoro di una camicia che torna a casa con me e mentre la ripongo leggo bene l’etichetta Tribute 1992. Il passato m’investe con tutta la sua potenza. Il 1992 è stato uno degli anni più terribili della mia vita e mi rendo conto di avere in mano la riproduzione dei pattern che vedevo sui giornali che mi facevano compagnia. I ricordi sono tornati brutali e all’improvviso. Ho capito perché dalle situazioni traumatiche ci si salva solo rimuovendo. La moda ha smesso di essere solo una bella camicia e ha significato altro. Gli abiti per me sono delle madeleine e un monito. Se da un giorno all’altro dovesse sparire tutto di nuovo, mi ricostruirei.
Special thanks to: Sara Moschini
Hair & Make up: Melly Sorace
#onmyvanitytable series created by Daniela Losini
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