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Grazia

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Factory

Arya: «Un nuovo modo di fare musica è possibile e deve partire da noi artisti»

Arya: «Un nuovo modo di fare musica è possibile e deve partire da noi artisti»

foto di Arya Delgado Arya Delgado — 24 Giugno 2025
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Cantante e cantautrice, Arya riflette sullo stato dell'industria musicale dal punto di vista dell'artista in un articolo personale e che dona spunti per ampliare la discussione

In casa mia, la musica c’è sempre stata. Avevamo, e tuttora abbiamo, un pianoforte a muro, che mia mamma suonava quando era piccola, dei timbales, un bongò e varie altre percussioni che mio papà iniziava a suonare, come un orologio svizzero, nel momento esatto in cui mi mettevo a studiare o a guardare qualcosa alla televisione.

Sono cresciuta tra un palco e un backstage perché papà, oltre a rintronarci le orecchie con quel suo pum-pum-pum, è un famoso cantante di salsa. Dico famoso non tanto per dire, ma perché è davvero famoso: ha suonato con le orchestre di salsa più importanti del pianeta, è stato il primo venezuelano a suonare al Madison Square Garden e ha fatto tour in tutto il mondo.

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Orlando Watussi, padre di Arya e famoso musicista

La prima cosa che mi ha detto mio papà quando ho deciso di voler intraprendere questa carriera è stata:

«Arya, prima capisci che la musica è un business come qualunque altro, meglio è». 

Ma io, immersa nella mia visione romantica e ingenua della musica, non gli ho creduto. Ci sono voluti diversi anni per capire che in fondo, per quanto la cosa mi disgustasse, aveva ragione lui. 

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Il famoso piano di casa

Una volta cresciuta, mi sono circondata di persone che condividessero in un modo o nell’altro la mia passione. Quindi per me uscire con gli amici significa per la maggior parte delle volte uscire con musicisti. E i musicisti parlano solo di una cosa tra di loro: di musica. 

Ogni giorno mi ritrovo a parlare con qualcuno di diverso e ogni giorno mi ritrovo a dire la stessa cosa: l’industria è una merda.

A un certo punto ho sentito il bisogno di dirlo a voce ancora più alta. 

Mentre ultimavo il disco, ho scritto due brani su questo tema, ognuno con un focus leggermente diverso. 

Nel primo, Don’t Speak, mi sono focalizzata sulle tante cose che secondo me non vanno nell’industria musicale, a partire dalla mancanza di diversità in un terreno che dovrebbe invece favorire le contaminazioni e le sperimentazioni fino ad arrivare alla complicità di realtà che dovrebbero essere di diffusione culturale, come radio e magazine, che invece contribuiscono a questo piattume. 

Una menzione d’onore va poi al sistema delle playlist editoriali delle piattaforme di streaming, che dovrebbero aiutare gli utenti a conoscere nuova musica suddivisa per genere o tema ma che invece alla fine dei conti servono solo a far aumentare il numero di streaming di un gruppetto di artisti. Alcuni big si sono esposti sul tema, come Fedez in una puntata di un paio di anni fa di Muschio Selvaggio, ma purtroppo ad oggi la situazione rimane invariata: le persone che gestiscono tutte le playlist editoriali si contano sulle dita di una mano. Com’è possibile che così poche persone siano esperte di tutti i generi musicali? Com’è possibile che in playlist diverse siano presenti comunque gli stessi pezzi degli stessi autori? Com’è possibile che si inizi a finire nelle playlist editoriali solamente quando si ha un distributore? 

Mah, mistero della fede(z). 

Guardare all’esterno e puntare il dito è “semplice”; più complicato è guardarsi dentro e cercare di capire se anche noi giochiamo un ruolo in questo meccanismo ed è proprio ciò che ho cercato di fare nel secondo brano, Non fa per me.

Sono partita da una domanda che mi assilla fin dal liceo, su cui ho fatto la mia tesina di maturità: la società è solo l’insieme dei membri che la compongono o diventa a un certo punto un’entità separata?

Ho provato ad applicare questo quesito al sistema dell’industria musicale, che, così come una piccola società, è formato da individui, che con il loro comportamento ne modificano la conformazione e l’indirizzo: è possibile che consciamente o inconsciamente noi artisti adottiamo degli atteggiamenti che rendono ancora più tossico un ambiente già marcio di per sé? 

Secondo me, è così. 

È così ogni volta che come artista metto all’ultimo posto la musica per pensare all’immagine, alla comunicazione, alla strategia, al featuring tattico, al posizionamento; è così ogni volta che penso alla musica come a una competizione; è così ogni volta che associo il mio valore alla partecipazione in un determinato festival; è così quando faccio la storia sui social per ringraziare una piattaforma di avermi inserita in una playlist, alimentando l’idea che entrare in una playlist di questo stampo sia sinonimo di qualità. 

Ho iniziato a parlare un po’ di più con le persone che mi seguono sui social, trovando finalmente una valvola di sfogo per dei mezzi - Instagram e TikTok - che utilizzavo a forza e controvoglia. 

Ho ricevuto tantissimi spunti e conferme su quanto il sistema attuale non vada bene quasi a nessuno: non va bene agli emergenti che faticano a trovare spazi e opportunità per potersi far sentire; non va bene a chi è un passo più avanti ma comunque non riesce a mollare il proprio lavoro perché “di musica qui non si campa”; non va bene a chi firma con una major, perché essendo un pesciolino in un oceano di pesci più grandi, non viene seguito come si deve; non va bene alle etichette indipendenti perché non hanno economie e si trovano a firmare a malincuore solo artisti con cui sono sicuri di rientrare nei costi.

E non sono solo gli artisti a pensarla così, ma anche tantissimi ascoltatori, che ogni giorno si ritrovano sotterrati da una mole di musica “nuova” difficile da smaltire ma che poi suona tutta uguale, e all’interno della quale è faticoso trovare qualcosa che davvero ci parli. 

E per me fare musica è sempre stata questione di parlare, dire qualcosa, condividere una certa visione del mondo, esorcizzare pensieri e paure. Purtroppo però mi ritrovo ad esistere in un periodo storico in cui arte e intrattenimento sono trattati allo stesso modo e in cui chi tenta di evadere dal sentiero già battuto non viene considerato. 

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Dal concerto al Fabrique a Milano in apertura a Mahmood - Ph credit: Kimberley Ross

Di solito quando conosco qualcuno di nuovo, la conversazione prende questa piega:

«Cosa fai nella vita?»

«Faccio musica, sono una cantautrice»

«Ma scherzi? Wow, dev’essere davvero bellissimo!»

Ora, sarà che sono un segno di terra, sarà che sono una precisina, sarà quello che volete, ma io a questo punto del discorso attacco sempre il pippone (mi scuso con chi se lo sia subìto in questi anni):

«Sì, beh, insomma, è sicuramente bello e giuro che non lo cambierei con nulla al mondo però probabilmente da fuori non si ha una percezione molto chiara di cosa significhi».

Effettivamente per chi non è “del mestiere” forse non è così immediato riconoscere gli aspetti più problematici della questione, a partire da quello psicologico. 

Il mondo di oggi ci richiede, nessuno escluso, di essere sempre sul pezzo. Per un artista questa richiesta si traduce nell’ansia di dover essere sempre presenti nelle orecchie e negli occhi della gente: producendo più di ciò che vorrebbe (con conseguente calo nella qualità della propria produzione), in tempi sempre più serrati (hai fatto uscire un disco un mese fa? È il momento di mettersi sotto con il prossimo!) e con modalità forzate (postare contenuti ad hoc per i singoli social anche più volte al giorno ed essere costanti nella pubblicazione). 

A ciò si aggiunge il fatto che comporre musica o scrivere testi, per quanto possano essere attività migliorabili e allenabili, non sono proprio paragonabili a compilare fogli Excel o fare lavori manuali. C’è bisogno di metodo, sì, ma anche di ispirazione, di intimità, di vivere nel mondo reale per poi riportare le proprie esperienze su carta (o pentagramma). 

Da non sottovalutare poi l’impegno economico che comporta produrre anche solo un singolo: pagare i/le producer, pagare le registrazioni in studio, pagare il videomaker se si decide di fare un video, pagare l’ufficio stampa, dare la percentuale al distributore, destinare del budget alle sponsorizzazioni. Tutto questo per ricevere indietro 0,003$ a streaming su Spotify. Wow. 

Se poi si decide di fare qualcosa che devii dal mainstream, le difficoltà aumentano: perché non canti in italiano? perché non fai qualcosa che sia più semplice? perché non fai il pezzo ballabile? perché non fai qualcosa che sia più simile a x o y?

La ciliegina sulla torta infine sono gli addetti ai lavori che si improvvisano tali e a cui della musica non frega davvero nulla: come gli A&R che, dopo aver dichiarato che la musica è l’unica cosa che conta, passano gli appuntamenti dedicati agli ascolti dei dischi al telefono a rispondere alle mail; o i locali che non hanno la strumentazione necessaria ma comunque organizzano live e non ti fanno compilare il borderò che è uno dei pochi modi per ottenere un ritorno economico dalla propria musica. 

«Però sì, a parte questo è davvero bellissimo».

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Dal concerto in apertura alla cantante italo-dominicana Yendry - Ph. Michael Yohanes

Problemi stratificati richiedono soluzioni stratificate e azioni congiunte: ognuno ha una propria responsabilità, un proprio mattoncino da impilare. 

Se mettiamo da parte la paura di parlare ad alta voce per timore di essere la pecora nera del gregge, probabilmente ci renderemo conto di non essere così soli. E in questo i social aiutano tantissimo. 

Dopo aver espresso apertamente cosa pensavo, sono stata sommersa da messaggi di persone che si rivedevano in ciò che dicevo, che volevano aggiungere la loro voce e la loro esperienza alla mia. Quest’ondata di supporto ha fatto crescere in me il pensiero che forse la mia modalità di comunicazione con il pubblico potesse essere più paritaria e trasparente.

Una conseguenza concreta di questo è stata una prova aperta fatta a Milano un paio di settimane fa, in cui le persone potessero essere coinvolte in un’esperienza diversa dal solito live. In quell’occasione volevo mostrare una versione più reale non solo di me stessa ma anche della musica: non la versione fatta e finita che si ascolta su Spotify ma quella più vera che si vede in sala prove, con le sue sbavature e i suoi errori.

Quest’esperienza si incastona perfettamente all’interno della visione che ho del mio percorso e che a oggi è l’unico modo che mi permette di continuare a fare musica in maniera più o meno serena: circondarmi di musicisti e addetti ai lavori che credano nel progetto per quello che è e per quello che pensano potrà diventare e che condividano la mia visione; collaborare con artisti che stimo personalmente e musicalmente; essere consapevole che non esiste un solo grande campo di gioco ma che l’importante è trovare la propria nicchia; che come ha detto più volte Ghemon, con cui spesso ci siamo confrontati su questo tema, questa non è uno sprint ma una maratona; più in generale continuare a fare, rimanendo fedele a me stessa e non alle logiche di mercato. 

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Backstage della live session di Si Potesse Tornare/La noche en que te fuiste

Penso quindi che un altro modo di fare musica sia possibile ma che l’impulso debba venire in primo luogo da noi artisti.

Penso che il pubblico sia molto più intelligente di come viene spesso dipinto e che attiriamo il pubblico che cerchiamo.

Penso che creare comunità e inclusione sia più redditizio nel lungo periodo che giocare sull’esclusività e le cerchie chiuse.

Almeno questo è l’approccio che funziona per me ma come diceva mio papà “cada cabeza es un mundo” che sarebbe la versione un po’ più romantica del nostro “il mondo è bello perché è vario”. 

© Riproduzione riservata

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