Giorgia Soleri:«Non vogliamo più soffrire in silenzio»
In questi giorni si sente molto parlare del disegno di legge sul congedo mestruale approvato in Spagna, il primo Paese in Europa a farsi portavoce del tentativo di tutela politica di chi soffre di dismenorrea, ovvero mestruazioni dolorose e invalidanti certificate dal medico. “Finalmente le donne spagnole che soffrono vengono viste”, dico. E invece si sente parlare anche di discriminazione di genere (quella che in quanto donne subiamo da centinaia di anni?), di assenteismo concesso dallo Stato (un vero privilegio non poter condurre la vita privata, sociale e professionale che si desidererebbe), di sfruttamento di un congedo che mira a riconoscere un dolore che limita le normali attività quotidiane.
Io ci ho messo 11 anni per poter avere scritto, nero su bianco, quanto le mie mestruazioni rendessero un incubo sette giorni di ogni mio mese. Sette giorni in cui piangevo, mi contorcevo, urlavo, rimettevo dal dolore e prendevo antinfiammatori e antidolorifici pregando funzionassero (spoiler: non succedeva quasi mai). Nel mio caso era endometriosi. La diagnosi è arrivata dopo quella di vulvodinia, con otto anni di ritardo diagnostico e incalcolabili notti di insonnia in preda a bruciori intensi da farmi pensare di aver conosciuto l’inferno – tra le mie gambe, precisamente.
Mi sono sentita dire che ero ipocondriaca, ansiosa, con la soglia del dolore bassa, frigida, fissata. Che avrei dovuto provare un bicchiere di vino prima dei rapporti, che forse il mio partner era sbagliato per me (anche quando ero single), che sicuramente una gravidanza avrebbe risolto la situazione. Figli prescritti come fossero Tachipirina 500.
Nel momento in cui ho finalmente dato un nome a quell’incubo, il 2 settembre 2020, avevo 115 mila follower su Instagram. Ho pensato: se raccontando la mia storia posso aiutare almeno una persona tra queste 115 mila, allora mettere il mio dolore e la mia vulnerabilità sotto gli occhi di chiunque avrà un senso. Così ho scoperto che la mia voce, la mia storia, non erano isolate. Che la mia sensazione di essere una strana specie di mostro in via d’estinzione era condivisa. Intorno a me era pieno di persone che raccontavano la propria esperienza – spesso talmente simile alla mia da poter essere sovrapposta – ma che erano silenziate dall’algoritmo (è difficile essere presenti ai ritmi richiesti dai social quando persino essere presenti a se stessi è uno sforzo) e da un’indifferenza silenziosa ma estesa a macchia d’olio. Allora mi sono unita a queste voci, ho creato insieme con loro una rete e una comunità e mi sono resa parte di un urlo così forte da non poter essere ignorato: “Vogliamo essere ascoltate”. Nonostante l’art. 32 della Costituzione parli di diritto alle cure per tutti gli individui, le tutele nei confronti di chi soffre di queste malattie scarseggiano. Il comitato vulvodinia e neuropatia del pudendo, composto da specialisti e specialiste, associazioni e noi, pazienti attiviste, nasce sull’onda di questo gap. E il 3 maggio è arrivato – siamo arrivate – in Camera dei Deputati, per presentare la proposta di legge depositata in Parlamento che chiede il riconoscimento di vulvodinia e neuropatia del pudendo come malattie croniche invalidanti. Il tutto in nemmeno un anno. Ho conosciuto il significato di ascolto, accoglienza. Il significato di essere vista. E solo due giorni dopo è nato La signorina Nessuno (Vallardi), il mio libro di poesie in cui ho convogliato tanta della mia vita, dolore fisico e psicologico compresi. A distanza di tutti questi anni posso dire: che figata essere visti.
Di Giorgia Soleri
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