Jake Gyllenhaal: «Vi racconterò tutta un'altra America»
Jake Gyllenhaal ci ha abituato a personaggi scomodi, estremi e determinati. Come il sopravvissuto all’attentato della maratona di Boston che interpreta nel film più atteso della Festa del cinema di Roma. Una storia con cui l’attore vuole mandare un messaggio forte e chiaro: «Anche quando è ferito, il Paese che amo riesce sempre a rialzarsi».
Staccargli gli occhi di dosso è impossibile. Al cinema, come dal vivo. Ogni volta che incontro l’attore americano Jake Gyllenhaal mi dimostra concretamente come un quasi 40enne con addosso una T-shirt bianca, o una camicia spiegazzata, e un paio di jeans possa essere tanto magnetico. Merito degli occhi, di un colore intenso e indecifrabile, come è spesso indecifrabile il suo umore, ma anche dei personaggi totalmente fuori dall’ordinario a cui ci ha abituati.
Dal ragazzo tormentato di Donnie Darko all’instancabile scalatore di Everest, dallo zoologo alcolizzato di Okja (film disponibile su Netflix) fino all’eroico Jeff Bauman che interpreta in Stronger, di cui è anche produttore. In anteprima alla Festa del Cinema di Roma - che ha ospitato anche un incontro pubblico con Jake Gyllenhaal il 28 ottobre - il film racconta l’attentato alla maratona di Boston del 2013 e lo vede nei panni di un sopravvissuto che si risveglia in ospedale senza gambe, ma con un’incrollabile voglia di reagire.
Se il lavoro procede a vele spiegate - è stato anche scelto come volto maschile del profumo Eternity di Calvin Klein - il versante della vita privata appare più frastagliato. Tante sono le relazioni naufragate con donne non proprio sconosciute: le colleghe Kirsten Dunst e Reese Witherspoon, la popstar Taylor Swift, la top model Alyssa Miller. Nei discorsi di Jake riaffiora spesso il dolore per il migliore amico perso per sempre, il compianto Heath Ledger, con cui ha condiviso prima il provino per il film Moulin Rouge! (per lo stesso ruolo fu infine scelto Ewan McGregor), poi il set di I segreti di Brokeback Mountain, storia d’amore tra due cowboy gay. È impossibile dimenticare il loro bacio e la loro indissolubile amicizia: Jake, che come padrino ebbe la leggenda del cinema Paul Newman, è il padrino della figlia di Heath, Matilda.
Cresciuto a pane e arte tra un padre regista, una madre sceneggiatrice e una sorella, Maggie, anche lei attrice di talento, Jake inizialmente aveva scelto di studiare Filosofia. Ma il richiamo del cinema è sempre stato forte: si è impegnato in cause e progetti per promuovere valori come cultura e rispetto dei diritti umani, pacifismo e difesa dell’ambiente, dividendosi tra campagne di sensibilizzazione e dimostrazioni sul campo. Agli Oscar è arrivato addirittura a bordo di una “Green Car”, un’auto ecologica. Gyllenhaal è un uomo complesso, insomma, di quelli che nemmeno dieci interviste bastano a raccontare.
Partiamo da un luogo comune: il narcisismo degli attori. Su Netflix l’abbiamo vista nei panni di uno zoologo egocentrico, folle, alla disperata ricerca di consenso. Nella vita ha mai sofferto di mancanza di attenzione?
«Sofferto è una parola forte, ma sì, mi è capitato. Se sei un artista, cresci cercando di definire la tua identità soprattutto nei momenti in cui la gente ti sta a guardare. Cresciamo tutti a modo nostro: c’è chi diventa adulto prima, chi dopo, chi velocemente, chi dopo mezzo secolo ancora è lontano dal farlo. Io penso di essere maturato davvero solo quando ho capito che abbiamo un tempo limitato a nostra disposizione e bisogna trascorrerlo facendo quello che amiamo».
È stato difficile crescere sotto i riflettori?
«Lo è imparare a farti scivolare addosso le critiche, soprattutto i giudizi di chi non ti conosce. Mi piacerebbe non stare a sentire quello che pensano gli altri di me, ma riesco a farlo solo quando recito e ho la testa nel copione. Fuori dal set è un’altra storia: pretendo che il pubblico si entusiasmi almeno quanto me guardando i miei personaggi, ma non sempre succede».
Sempre più spesso ci ha fatto vedere ruoli di uomini al limite, folli, o comunque sopra le righe. Non le piace la normalità?
«Se c’è una chance che questo mestiere ti regala, è quella di poterti spingere oltre ogni regola, spostare i confini del tuo mondo sempre più in là. Mi chieda che cosa mi interessa davvero».
Che cosa le interessa davvero?
«Rischiare. Azzardare. Diventare personaggi che agli altri, generalmente, risultano spiacevoli o scomodi. Più leggo un copione che mi fa stare male, più sento che ho scelto la storia giusta. Non mi interessa essere sempre un super-protagonista: lo zoologo fuori di testa di Okja ha quel disperato bisogno di attenzione che riscontro in molti dei miei colleghi. L’ossessione per cui, se nessuno ti guarda, non esisti».
Lei si sente immune allo sguardo degli altri?
«È qualcosa con cui non ho ancora fatto pace. Da ragazzo ero più tormentato, mi sentivo addosso gli occhi della gente, come fossi sempre su un palco e dovessi in ogni istante iniziare uno show. Dopo tutti questi anni, mi sono reso conto che devo mostrarmi per quello che sono. E io sono un uomo adulto, un artista consapevole, un attore che ama il proprio lavoro più di ogni cosa e si diverte a esagerare quando gli affidano personaggi estremi. Sento sempre la responsabilità di quello che faccio».
Che cosa intende per responsabilità?
«La responsabilità di comunicare a chi guarda contenuto, sostanza, storie importanti come quella di Stronger, che ho voluto con tutto me stesso, dato che è un film che ho scelto di produrre e interpretare. La storia di Jeff Bauman, che perde le gambe dopo l’attentato di Boston, non poteva essere trattata con leggerezza. L’ho conosciuto, quelli che vediamo nel film sono momenti privati della sua vita, non potevo tradirli davanti ai suoi occhi facendo di testa mia: ho sentito un’enorme responsabilità durante tutte le riprese».
E sente di aver fatto un buon lavoro?
«Ho una responsabilità anche verso il pubblico. Quando fai un film, idealmente prendi per mano gli spettatori, li conduci in una sala buia come una camera da letto prima di andare a dormire. In quel momento è tuo compito far accadere la magia, sperare che chi ti guarda esca dalla sala con uno sguardo diverso sul mondo. Per questo credo che, alla fine, ogni film sia un po’ “politico”».
E della politica fuori dai cinema è soddisfatto?
«Mi disturba la leggerezza del governo americano nei confronti dell’ambiente e dell’arte. Sono due valori da salvaguardare, invece sento solo parlare di fondi da tagliare o accordi sul clima da rinnegare. L’aria che tira in America è straordinariamente confusa».
Ha voglia di reagire, di cambiare le cose?
«Sì. È una fase buia della nostra storia, fatta di continui tentativi d’indebolire i valori che hanno fatto grande il nostro Paese. Eppure sono fiducioso: sento che tutta questa pressione avvicinerà cittadini, artisti e attivisti».
È stato l’incontro con Bauman a darle tanto ottimismo?
«Niente è più americano della voglia di riscatto, del desiderio comune di rimarginare una ferita, rialzarsi da una sconfitta e tornare a farsi sentire. Forse non c’è mai stato momento migliore di questo per alzare la voce tutti insieme».
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