Abbiamo trascorso una mattina con Elena Mariani, autrice TV e digital specialist, e abbiamo discusso di immagine femminile e social network. Leggete l'intervista
Altro che star delle serie TV o cantanti: Elena Mariani da piccola sognava di diventare Donatella Versace. Un segno del destino, visto che, dopo qualche anno, il mondo della moda è diventato la sua casa: oggi gioca con le parole per descrivere le scelte stilistiche delle celeb mentre nel privato adora collezionare e mixare pezzi unici. Il tutto condito con un'ironia non comune che emerge da subito, appena comincia a raccontare qualcosa di sé, per iniziare a rompere il ghiaccio.
Elena ti guarda dritto negli occhi, ha le idee chiare e zero peli sulla lingua: abbiamo parlato di immagine femminile, rapporto con il nostro corpo, donne&lavoro, tra un caffè, svariati scatti fotografici e tanto divertimento.
Ci piace ragionare, in questa rubrica, della percezione dell'immagine femminile. Qual è la tua idea? Quali sono gli scritti e i racconti in cui ti riconosci?
Ho sempre pensato, nel passato, che essere femminile significasse essere totalmente femminile. A 20 anni, per esempio, indossavo solo abiti super femminili: un tubino nero e tacchi anche quando andavo nei centri sociali. Poi, con l’arrivo dell’età adulta e del primo lavoro in un'agenzia di comunicazione, la percezione che avevo del mio corpo è cambiata: femminile o no, dovevo abitare in spazi condivisi in cui ero principalmente giudicata per le mie azioni; così, quel il pensiero fisso su come appariva il mio corpo e come gli altri lo percepivano mi è passato. Grazie vita adulta! L’idea di femminile ha per tanto tempo occupato la mia testa. Oggi non ho né un’idea di femminile né uno di bellezza: è troppo pericoloso aggrapparsi a una sola visione, non voglio più ossessionarmi con un solo modello e precludermi la scoperta del bello.
Come mai, secondo te, c'è questa ossessione sul corpo delle donne? Gli uomini non hanno modelli specifici a cui tendere (ndr: in realtà alcuni attori famosi hanno fatto notare l'attenzione spasmodica nei confronti del loro corpo durante le riprese dei film sollevando un problema che finora sembrava solo femminile).
Penso che i motivi siano due: il primo è che la società è governata da occhi maschili (e l'occhio maschile ha sempre decretato come doveva essere la bellezza femminile); questo vale oggi come valeva, forse ancora di più, nel periodo della mia infanzia: venti anni fa in TV erano tutte davvero magrissime, per me e per le mie amiche era impossibile identificarsi in un personaggio vincente. Il secondo motivo è puramente economico: la donna è un target di mercato molto interessante e appetibile, più proficuo. Chiederci continuamente di cambiare significa imporci di spendere in oggetti nuovi. Non c’è mai un limite.
Hai accennato a un prima e a un dopo nella storia del rapporto con il tuo corpo. Ci racconti questo momento di passaggio? Cosa è avvenuto?
È avvenuto molti anni fa: ho avuto un melanoma alla gamba destra che mi ha costretto, per un periodo, all'immobilità, e il mio corpo è inevitabilmente cambiato, non era più quello di prima. Questo momento difficile mi è servito per vedere le cose nella giusta prospettiva; il mio peso è diventato un problema minuscolo e ho smesso di criticarmi così ferocemente, al contrario, mi sono detta: «Se esco da questa situazione, giuro che non mi lamenterò mai più del mio culo!».
Per un po’ è stato così, poi ho ricominciato a lamentarmene perché è troppo facile rimanere fermi e dare la colpa alle cose che ci sono successe. È un processo, ancora devo trovare un equilibrio con il mio corpo, ancora faccio fatica a passare dal pensiero alle azioni. La verità è che il nostro corpo ci parla, ma molto spesso non lo ascoltiamo.
Qualcuno ha detto che «tutte le persone dalla forte autoironia hanno in mano qualcosa da raccontare»: cosa ne pensi?
Per me l’autoironia è stata fondamentale fin dall’inizio. È sempre stata la mia arma, la usavo a scuola per difendermi dai bulletti e la uso tutt’ora quando scrivo video e idee per me e per gli altri. Parto spesso da un'esperienza universale per poi rileggerla in maniera ironica. Per esempio, nelle mie Instagram stories, quando mi lancio nelle pagelle dei red carpet, gioco con l’immaginario che abbiamo delle star, quello che giudico non è mai la persona, ma il lavoro intorno alla scelta dell’abito. Quello che dico spesso è «denuncia lo stylist», non «rifatti!».
Qual è oggi il tuo rapporto con la moda e come scegli cosa indossare?
Ho sempre avuto un’ossessione per la moda: da bambina sognavo di diventare Donatella Versace. So cosa mi valorizza, ho un corpo da abiti femminili, ma - sai cosa c’è? - voglio indossare altro. Per anni i media mi hanno ripetuto come dovevo vestirmi, non ne posso più dell’equazione curvy uguale stile anni Cinquanta! Ho iniziato ad aggiungere pezzi più maschili e androgini al mio armadio, ma la più grande conquista sono stati i pantaloni bianchi. Li amo, li indosso tutto l’anno, alla faccia di chi mi consigliava di evitarli.
Sempre a proposito di moda, come vivi le tendenze del momento?
Non seguo i trend, non ho mai avuto l’ansia di comprare costantemente qualcosa. Ora sono in un momento di svolta, guardo gli abiti vecchi, mi dico che ora non li indosserei mai perché non sono più quella persona lì, ma allo stesso tempo non mi sono mai vergognata dei miei vestiti perché frutto di una scelta consapevole. Non mi piace chi parla male degli ex e dei propri vestiti.
Passiamo ai social come Instagram, quello che va per la maggiore: è un luogo dove ci si mostra e dove si guarda; è, insomma, una vetrina. Lo è anche per te?
Non riesco a gestire il mio profilo su Instagram in questo modo. Non nego di usarlo, anche per lavoro – collaboro volentieri con alcuni brand – ma non voglio passare tutto il tempo a fare strategia su di me, non voglio vivere contando i like e analizzando il profilo delle persone che mi seguono o che guardano le mie stories. Certo, potrei avere più follower, potrei avere più successo se andassi a bussare alle porte dei brand, se comprassi follower… ma mi domando: «Ho voglia di farlo?». La risposta è «no». Se iniziassi a pensare alla “strategia” non potrei vivere Instagram con la stessa spontaneità.
Ci sono poi delle storture che emergono da Instagram...
Nessuno vuole venire male in foto. Se da un lato è normale voler mostrare la tua parte migliore, dall'altro questo può diventare pericoloso perché finisci per non essere più tu – è un discorso che non riguarda i performer o chi usa Instagram per un progetto artistico. Parliamo dei casi in cui sei in balia dello strumento: usano tutti la stessa palette di colori, frequentano tutti gli stessi posti, si fotografano tutti davanti allo stesso muro rosa, insomma siamo di fronte a una gentrificazione della bellezza che forse per i brand può essere rassicurante ma, in generale, è sinonimo di appiattimento totale. È un lavoro costante che si trasforma nel peso di dover essere sempre all'altezza dell'immagine che ti sei costruito e, di conseguenza, sentirti costretto a scusarti se qualcosa non rispetta gli standard che ti sei imposto. C'è, poi, un altro aspetto: la narrazione. È importante saper parlare di te stesso. Non si tratta di “personal branding” - termine un po' triste – quanto imparare a pesare le parole e scegliere bene quelle giuste da usare per raccontare di te.
Qual è, invece, il rapporto che hai con il make-up?
Amo il make-up, ma non ne sono schiava. Il mio prodotto beauty preferito è il rossetto, mi piace giocare con i colori sia di giorno che di sera, ma il momento in cui mi trovo al massimo splendore è dopo una doccia! Quello che mi stupisce, in ogni caso, è vedere la reazione degli altri di fronte alle mie scelte estetiche. C'è una tendenza, quasi naturale, da parte degli uomini, a voler leggere qualcosa nel modo in cui una donna si veste o si trucca. In molti contesti, incluso quello lavorativo, ci si sente letteralmente scansionati dalla testa ai piedi! Sai quando ti trucchi e tutti ti dicono: «Come mai così in tiro? Hai una riunione?». Poi la verità è che ti sei messa il rossetto perché lo hai trovato in una vecchia borsa la sera prima.
Come vivi adesso il lavoro?
Amo il mio lavoro, ma ora lo vivo con più leggerezza. Ho imparato che non devo sempre mostrarmi iperattiva e felice, non è il mio compito migliorare la giornata degli altri. Fare questo switch mentale mi ha permesso di avere più tempo per lavorare in maniera attiva. Oltre al lavoro di autrice video e digital strategist, quest’anno ho portato avanti la seconda stagione radiofonica di Ordinary Girls -sempre con la mia fidata Florencia Di Stefano Abichain- e firmato un omonimo podcast in esclusiva per Storytel dove parliamo dei dubbi e dei desideri delle donne della nostra generazione. Questo inverno, torneremo proprio con una nuova serie di podcast per Storytel, sempre incentrata sulle donne e avremo tante ospiti. Voglio smettere di giustificarmi perché sono fortunata e faccio quello che mi piace: non è questione di culo, quanto di bravura. Non dobbiamo vergognarci di avere del talento o delle ambizioni.
Com'è fare l'autrice in un mondo maschile?
Sono un’autrice di video e spesso sul set sono l’unica donna. Quando il talent - uomo o donna che sia - entra in studio pronto per essere intervistato da me, la prima cosa che fa è presentarsi all'uomo più maturo, perché si ritiene che sia lui a rappresentare l’autorità. I più coraggiosi mi guardano e subito esclamano: «Tu sei la truccatrice, giusto?». Mi fa anche un po’ ridere, mi capita di sfruttare la cosa e agire di più nell'ombra: se faccio meno paura, ottengo più risposte, però mi ha fatto anche pensare alla dinamica del potere e a quante volte lasciamo passivamente che siano gli altri a prenderlo.
Special thanks to: Sara Moschini / FUJIFILM
Hair & make-up: Melly Sorace
#onmyvanitytable series created by Daniela Losini
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