Patty Pravo: Sarò sempre una minaccia bionda
Nella sua casa di Roma, Patty Pravo conserva una sola fotografia: «Ci siamo il tenore Luciano Pavarotti e io che ridiamo come deficienti. Mi mette allegria».
Tutte le immagini che, invece, troviamo nel volume fotografico a cura di Pino Strabioli e Simone Folco, che Rizzoli manda in libreria il 1° dicembre, sono state messe insieme a fatica, pescate nei cassetti dei fotografi e in diversi archivi. Il libro s’intitola Minaccia bionda. Ma è il sottotitolo a parlare più di tutto: “A modo mio sempre controtempo”.
Che cosa significa?
«Già a scuola, da ragazzina, mi dicevano che ero più avanti, fuori dal tempo, fuori dal comune. E, in effetti, la mia vita un po’ eccezionale lo è sempre stata. Ho avuto la fortuna di nascere a Venezia e, alle elementari, ho avuto una maestra meravigliosa che, invece di recitare le preghiere in classe, ogni mattina ci faceva cantare La Marsigliese».
Nel libro cita sua nonna come un modello.
«Ha compreso subito la mia natura, per questo mi mandò fin da piccola a studiare pianoforte da Mazzin Crovato, una nobildonna decaduta che viveva in un palazzo pieno di gatti. E a prendere lezioni di danza. Era un Acquario, mi ha sempre dato libertà, concesso fiducia».
Anche con suo padre aveva un bel rapporto.
«Con lui mi sono divertita tantissimo. Sembravamo fratelli. Mi portò a vedere la mia prima partita di calcio. Mi chiamò al telefono: “Nicoletta, sei mai stata allo stadio?”. Avrò avuto 7 o 8 anni. La partita era Venezia-Juventus. Mi innamorai del calciatore Omar Sívori, perché litigò con l’arbitro».
Parecchie foto del libro risalgono al tempo che trascorse negli Stati Uniti, negli Anni 70 e 80.
«Ho vissuto tre o quattro anni tra Los Angeles e San Francisco. Facendo avanti e indietro con l’Europa, Londra, l’Italia. Una volta presi un aereo per andare a vedere com’era il Ferragosto a Roma. Quando stavo in California, mi piaceva guidare fino al Gran Canyon. A Las Vegas, avevo alcuni amici indiani che mi confezionavano collanine e bracciali. Sono tra le poche cose che ho ancora. Credo che mi portino bene».
Davvero non ha conservato nulla? Abiti?
«Ma figurati! Li ho usati e lasciati lungo la vita».
Il segreto della leggerezza sta in questo? Lasciarsi alle spalle i ricordi?
«Certo. Anni fa, comprai una casa a Bahia, in Brasile. Costava poco e mi tornava utile. Poi, però, tra lavoro e tournée, me ne sono dimenticata. Un giorno il mio amico, il compositore Vinícius de Moraes, mi chiamò e mi disse: “Guarda che te l’hanno espropriata”. Peccato! Vivere della memoria del passato è una cosa triste. Diverso è se, ogni tanto, emerge un ricordo e l’animo s’illumina».
Allora, facciamone emergere qualcuno.
«Una volta, a un distributore di benzina, a Los Angeles, incrociai l’attore John Travolta. Stava facendo il pieno in pantaloncini. Abitavo allo Chateau Marmont, un hotel pieno di star. Mae West convinse tutti a permettere al mio cane Sunshine di nuotare in piscina».
È a Los Angeles che ha incontrato Gianni Versace che disegnò per lei l’abito indossato a Sanremo nel 1984, dove presentò il brano Per una bambola?
«No. Andò così: ero a San Francisco e, a cena, incrociai lo scenografo Maurice Béjart. Avevo in mente una stoffa metallica e ne parlai con lui. Maurice, all’epoca, stava lavorando a un balletto con costumi disegnati da Gianni e mi consigliò di chiedere a lui. Presi un aereo per Milano e lo raggiunsi».
A Sanremo c’è stata spesso. Come mai questo rapporto così stretto con il festival?
«Non lo so. La mia prima volta è stata con La spada nel cuore (nel 1970, in coppia con Little Tony, ndr), da allora ci sono tornata dieci volte. Una follia».
Lei ha sempre legato le sue canzoni a un look diverso. Come vere e proprie performance. Perché?
«Mi è venuto naturale. Anche in certe trasmissioni televisive per bambini andavo con addosso solo la giacca e il seno in vista. Eravamo più avanti allora, adesso ti censurano».
In certe foto, a causa del make up e dello stile, ricorda David Bowie. Vi siete conosciuti?
«A Los Angeles. Abbiamo cenato insieme una sera. La cose divertente è che, allora, Robert Plant dei Led Zeppelin mi mandava dall’Inghilterra confezioni di tabacco da fiuto perché gli avevo raccontato che mia nonna lo usava. Quella sera, a tavola, avevo con me una varietà bianca e ogni tanto facevo un tiro. La gente intorno ci guardava stranita. Pensavano fosse altro».
A proposito di droghe: viaggi psichedelici come quelli che raccontava Steve Jobs, il fondatore di Apple, ne ha mai fatti?
«Un po’ di canne, qualche acido. Ma non mi hanno fatto un grande effetto. Può essere che lui avesse più soldi per permettersi roba migliore».
Uno dei suoi motti è: “Bisogna ridere almeno mezz’ora al giorno”. Ci riesce?
«Alla peggio mi metto a fischiettare e, siccome non sono capace, mi scappa subito una risata». © Riproduzione riservata
Le immagini all'interno dell'intervista sono tratte dal libro Minaccia Bionda a cura di Pino Strabioli e Simone Folco (Rizzoli, in libreria dal 1 dicembre). Immagine di apertura @GettyImages
© Riproduzione riservata