Al cinema Elle Fanning è Mary Shelley, la giovane autrice di Frankenstein che, per seguire la passione, sfidò le regole del suo tempo. Perché niente, dice l’attrice americana, ti fa capire quanto fosse necessaria l’emancipazione femminile quanto una giornata passata indossando un corsetto.
Qualche anno fa, tra i giornalisti cinematografici americani, c’era questo passatempo: qualcuno diceva il titolo di un film e gli altri dovevano indovinare se nel cast ci fosse Dakota o Elle Fanning, cioè una delle due sorelle rivelazione di questi anni. All’inizio il gioco era divertente, poi le ragazze hanno trovato ognuna la sua strada.
Saga di Twilight o Pastorale americana? Dakota. Somewhere di Sofia Coppola o The Neon Demon di Nicolas Winding Refn? Elle. In sintesi: la sorella maggiore Dakota, 24 anni, sembra essere preferita dalla grandi produzioni; Elle, 20, è diventata la musa di un certo cinema d’autore. Incidentalmente, Elle è anche la mia preferita, per quel suo modo di parlare a volte un po’ naïve, quel suo non riuscire a stare ferma sulla sedia e, non da meno, per la disciplina assoluta che dimostra sul grande schermo.
Quella che ho davanti oggi è la Elle “fuori dal set”: tailleur Principe di Galles un po’ stropicciato, camicia bianca bon ton, pantaloni gaucho e sneakers bianche ai piedi. Siamo qui per parlare di Mary Shelley - Un amore immortale (nelle sale dal 29 agosto), dove la ragazza americana interpreta con accento inglese la scrittrice vissuta nell’Ottocento che - più o meno alla sua età - scrisse il romanzo gotico Frankenstein, uno dei capolavori della storia della letteratura e, soprattutto, la dimostrazione che una donna poteva andare ben oltre i rigidi protocolli del tempo raccontando vicende capaci di far venire i brividi.
«È una lezione che ancora oggi fatichiamo a imparare», sottolinea Elle, ricordandomi che il film è diretto da Haifaa al-Mansour, prima regista dell’Arabia Saudita. «Per raccontare questa storia era importante lo sguardo di qualcuno che avesse conosciuto direttamente i pregiudizi della società». Mary Shelley è una storia di un amore appassionato e tormentato (con il poeta Percy Bysshe Shelley, interpretato da Douglas Booth) e un inno che invita le ragazze a trovare la loro voce. Quella che Elle ha trovato da un pezzo: prossimamente la vedremo accanto a Selena Gomez nel travagliato film di Woody Allen A Rainy Day in New York.

Insieme con L’inganno di Sofia Coppola, Mary Shelley è il secondo dramma in costume in cui la vediamo. Le piace interpretare film d’epoca?
«Stavolta volevamo raccontare una storia di emancipazione femminile e devo dire che niente ti fa provare le difficoltà di essere una donna del 19° secolo come indossare un corsetto per una giornata intera. Scherzi a parte, abiti e acconciatura ti aiutano molto a rendere i capelli rossi, perché dovevo dare l’idea di una giovane donna dalla natura ribelle, che non sopportava alcun genere di costrizione».
Ma ha imparato o no a convivere con i corsetti?
«Il trucco me l’ha insegnato la mia amica Kirsten Dunst, che ha recitato anche nel film Marie Antoinette: bisogna stare sdraiate a pancia in giù. Ma non è certo una gran vita».
Si dice di lei che sia un’attrice molto istintiva. È vero che impara le sue battute solo la sera prima di una scena?
«Non ho una vera e propria regola. Una volta che hai il copione, puoi immaginare nel dettaglio ogni scena ma non puoi mai davvero prevedere come andrà sul set. Quindi, preferisco affidarmi alla pancia, più che alla testa».

La sua collega premio Oscar, Meryl Streep, una volta ha detto che non inizia davvero a recitare finché non arriva una persona sul set accanto a lei.
«Concordo e, aggiungo, anche le scene più complesse non possono essere private di spontaneità. A volte sbagli, certo, ma anche nei nostri errori è come se ci fosse una pepita d’oro: magari non la cogli tu, ma lo fa un altro attore, o il regista, o la persona che poi monterà la scena. Io trovo che essere onesti senza nascondere le sensazioni che proviamo sia il miglior modo per lavorare».
Lei è dotata più di memoria o d’immaginazione?
«Trascorro molto tempo a fantasticare, ma non vorrei passare per un’attrice che non fa i compiti. Leggo, assimilo, ma poi mi lascio trasportare dal brivido delle mie idee».
Negli ultimi film l’abbiamo vista lavorare con tante donne di successo. Pensa sia un buon momento per la parità di genere nel cinema?
«Non credo che le due cose siano correlate, purtroppo. Di sicuro, vedo attorno a noi molte opportunità. La mia gioia più grande è aver avuto la fortuna di incontrare come mentori artiste straordinarie come Sofia Coppola, Nicole Kidman, Kirsten Dunst: all’inizio erano solo “miti”, ero intimidita da loro, poi la nostra relazione è cambiata ed essere loro amica oggi è uno dei doni più belli che abbia ricevuto».
Come è cambiata invece la relazione con sua sorella Dakota?
«Più passano gli anni meno mi sento la sorella minore: siamo come amiche ormai. La cosa più divertente è quando siamo in viaggio per lavoro e ci diamo appuntamento in qualche città europea. A Dakota devo molto: se non avesse iniziato a recitare, io non avrei mai seguito la mia vocazione».
Chiede ancora consiglio a lei su quali copioni scegliere?
«Le faccio domande su ogni cosa, a dire il vero. Nella nostra famiglia siamo abituati a sostenerci l’un l’altro. Siamo cresciute tra donne determinate e Dakota ha ereditato in modo molto evidente quella tenacia».
Venite da una famiglia sportiva: lei è nipote di un campione di football e figlia di una tennista e di un giocatore di baseball, giusto?
«Esatto, lo sport è sempre stato parte di noi e della nostra mentalità: sembra strano, ma l’agonismo che si respira in campo è simile a quello del mondo della recitazione. È grazie all’esempio della mia famiglia che mia sorella e io abbiamo trovato la determinazione per andare avanti».

Lei e Dakota continuate a mantenere il patto di non innamorarvi mai dello stesso uomo?
«Ci siamo trovate in quella situazione solo una volta, quando eravamo entrambe a scuola, ma non vale: tutte le ragazze erano pazze di quel nostro compagno. Adesso magari ci piacciono gli stessi attori».
Per esempio?
«Leonardo DiCaprio. Ora che ci penso, ogni tanto lui affiora nei nostri discorsi», ride. «È un attore straordinario. Quando l’ho conosciuto ero così emozionata che sono riuscita a dirgli solo questo».
Che cosa dicono a lei, invece, gli uomini?
«Una volta uno mi ha abbordato chiedendomi se fossi mia sorella. Gli ho risposto di no e lui ha detto di saperlo, e che la sua era solo una scusa per parlarmi. Queste cose, però, con me non funzionano».

E che cosa funziona?
«Non lo so, sto lavorando così tanto che ai ragazzi proprio non penso. Di sicuro non mi vesto per loro», e mi indica il suo completo un po’ maschile. «Ricordo che qualche anno fa tutte le mie amiche erano eccitate per una festa ed erano a caccia dell’abito da sera più sensuale: loro scelsero quasi tutte il nero, io alla fine mi sono presentata con un paio di pantaloni di Rodarte e una maglia rosa».
Lei piace a molti stilisti: le due designer di Rodarte, le sorelle Kate e Laura Mulleavy, sono sue amiche. E quest’anno è stata fotografatissima a Berlino in un abito rosso e bianco di Valentino Couture. Che cosa le piace della moda?
«Innanzitutto la possibilità di mettermi alla prova e di indossare capi unici. E poi mi regala tante emozioni».
La più grande?
«L’anno scorso al Festival di Cannes l’abito realizzato da Vivienne Westwood mi ha lasciato senza parole: era bianco, aveva un lungo strascico, e su di esso la stilista aveva dipinto a mano stelle e pianeti, scritto il mio nome e fatto ricamare un unicorno, il mio animale preferito».
L’unicorno simboleggia l’incontro tra il mondo tangibile e quello dei sogni. È così che si vede lei?
«Non esageriamo, ma un’attrice vive sempre tra due mondi, no?».

Foto di apertura: Getty Images
© Riproduzione riservata