Sul grande schermo l’abbiamo vista in ruoli di madri alle prese con la propria inadeguatezza. E ora che arriva anche con una fiction in tv, l’attrice Elena Radonicich posa per Grazia e racconta come nella vita reale abbia imparato a essere una mamma orgogliosamente imperfetta
È la donna delle lunghe attese l’attrice Elena Radonicich. E non perché sia una ritardataria, ma perché prende tempo per rispondere alle domande che le faccio. Le piace scegliere le parole giuste che sono un ingrediente fondamentale di una buona conversazione. Un ottimo inizio per un’ intervista che arriva a fine giornata, dopo innumerevoli cambi di vestiti sofisticati, make up e pose da vera diva. E quando finalmente sprofonda sul divano della suite dove la incontro, Elena è un altra donna. Tutta da scoprire. Ha fatto delle foto molto sofisticate.
È così che si sente?
«Mi piace l’eleganza. La sofisticatezza però è un’arma a doppio taglio: se è eccessiva, può creare distanza e inquietudine».
Però certe donne riescono a portarti in un altro mondo solo perché sono molto sofisticate.
«Sì, se penso alle attrici Marlene Dietrich e Greta Garbo. Ma io sono più terrena».
Sul suo Instagram c’è un post con una frase tratta da un’opera dello street artist Banksy, “Don’t grow up: it’s a trap” (Non diventare grande: è una trappola, ndr). È un monito per lei o invece pensava a sua figlia? «È per me che stando vicino a lei (Anna, 3 anni, ndr) spero di preservare un po’ di innocenza e quella vivida curiosità di esplorare le possibilità che la vita offre».
Che cosa teme?
«Spero di non smettere mai di essere duttile».
È mai stata ribelle?
«Durante l’adolescenza seguivo un codice etico piuttosto rigoroso. Per educazione, sapevo che cosa era giusto o sbagliato. Il vantaggio di quando osservi un codice è che fai meno errori. E questo ti fa crescere “solida”. Quando mi sono trasferita a Roma tutto è cambiato»
Aveva messo un tappo alla sua energia?
«Forse sì. Sono stata un’adolescente cauta, se mi paragono ai ventenni di oggi. La mia generazione, figlia dei sessantottini, aveva meno inquietudini. Noi sappiamo con chiarezza da dove veniamo, perché abbiamo ancora un piede nel secolo scorso».
Quali sono stati i suoi punti di riferimento?
«Mia madre. Che adora partecipare a tutto ciò che faccio. Casa nostra era un porto di mare e lei era molto amata da tutti i miei amici. Le mando spesso sul cellulare foto di dove sono (lo fa anche adesso, ndr). Negli anni ho collezionato fascinazioni per donne che hanno anche 20 anni più di me, le cui opinioni sono state fondamentali».
Parlando di donne, qual è la cosa più importante del movimento #MeToo?
«La responsabilità che tutte hanno nei confronti di loro stesse. E sapere che oggi abbiamo più strumenti per non subire discriminazioni».
Manca la solidarietà tra le donne?
«Assolutamente no. Noi donne sappiamo essere solidali. Ma quando non lo siamo ci facciamo molto male».
In due film che ha interpretato si parla di madri: Tutto parla di te, della regista Alina Marazzi, e il più recente Palloncini di Laura Chiossone. Lei che madre è?
«Palloncini è un film grottesco. Racconta con leggerezza l’inadeguatezza che sentono tante mamme, una condizione che per fortuna non ho mai provato. Ciò che mi colpisce è il modo in cui certe donne si spengono quando hanno dei figli. Spesso, osservandole, mi domando: ma la donna dentro questa madre dov’è finita? Tutto parla di te, invece, è un film drammatico, che racconta della depressione post parto. Quando è nata Anna temevo arrivasse anche per me e mi sono preparata a non averne vergogna. La purezza e la perfezione della brava madre, che per alcune diventano un’ ossessione, sono falsità che ti imbrigliano. E prima scendi a patti con la verità, prima ti perdoni. Altrimenti il peso diventa enorme da sopportare».
Ha interpretato spesso ruoli drammatici. Sono capitati per caso?
«Sì, è così. Forse perché del mio carattere si vede subito la serietà e non la leggerezza. E poi la mia faccia non è proprio da burlona».
Però sa essere anche divertente?
«Certo. Ma nel cinema spesso sei chiamato a fare quello che sai già fare e non perché sei materia da plasmare. Vorrei un regista che prenda questo mio involucro e tiri fuori qualcosa di inaspettato».
Ha mai fatto psicanalisi?
«Sì, un po’. Fa parte del mestiere dell’attore. Se devi metterti nei panni di qualcun altro, devi scardinare la psiche altrui, ma anche la tua».
Lei è piemontese, vive a Roma e il papà di Anna è palermitano (l’attore Gaetano Bruno, ndr)
«Mi ha fatto bene questo mix culturale. Nella famiglia di Gaetano c’è una spontaneità di sentimenti e una facilità all’abbraccio che in Piemonte, dove sono nata, sono rare. Madri e figli in Sicilia si chiamano “vita mia”, “sciatu”(fiato, ndr)».
Ha interpretato Puny (Enrica Rignon), la prima moglie di Fabrizio De André, nel film Principe libero, amato ma anche criticato dai fan del cantante genovese.
«Immergersi nella storia della famiglia De André è stata un’esperienza intensa. Tuttavia entrare nell’intimità di una relazione mi ha riempito di pudore. È vero che ognuno ha il suo De André: per la prima volta ho sentito con chiarezza che c’era un pubblico vasto e pensante da rispettare».
Sarà anche in La porta rossa 2, la fiction per la tv ideata da Carlo Lucarelli e Giampiero Rigosi, che parla di vita oltre la morte. La impressiona l’argomento?
«Non mi spaventa, anche se avrò a che fare con un fantasma, il protagonista della fiction».
Prossimo film in sala?
«Metti una notte del regista Cosimo Messeri. Un film molto divertente nel quale sono Tea, una donna supponente e un po’ stupida, che non ascolta gli altri e seduce il protagonista, che è Messeri stesso».
Sarà anche in un episodio di Montalbano: L’altro capo del filo.
«Sarà come sfilare sul tappeto rosso dentro le case degli italiani. In un futuro prossimo, quando penseremo a questo periodo storico parleremo di Montalbano. Esserne stata parte mi riempie di gioia».
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