A Shanghai dove Huawei cresce la sua intelligenza artificiale

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Prima ha inserito l'intelligenza artificiale negli smartphone Huawei. Ora Richard Yu vuole andare oltre. Grazia l'ha incontrato a Shanghai per scoprire il futuro cool della tecnologia di domani

Non è passato molto tempo da quando un bambino di 10 anni chiamato Manfu Wang, uno scolaro di una remota regione della Cina sud-orientale, ha commosso il mondo. Il ragazzino era arrivato in classe con i capelli gelati e grazie a una foto scattata dallo smartphone del suo maestro, poi diventata virale, si è trasformato in uno dei simboli della voglia di riscatto degli ultimi, dei dimenticati.

Molti anni prima qualcosa del genere era successo anche a un ragazzo chiamato Chengdong Yu: ogni giorno questo figlio di contadini tornava a casa da scuola a piedi e, guardando le persone intente a lavorare con la schiena curva, pensava che, se avessero avuto a disposizione delle macchine, non avrebbero più dovuto fare tutta quella fatica. Yu oggi ha quasi 50 anni, non si occupa di agricoltura, ma può dire di aver creato comunque macchine senza eguali.

Il mondo lo conosce come Richard Yu, ceo della divisione consumer di Huawei, il marchio tecnologico che solo pochi mesi fa ha introdotto i Mate 10 Pro, i primi smartphone dotati di intelligenza artificiale integrata, e che nel 2018 punta a superare Apple come secondo venditore mondiale di questi apparecchi. I suoi cellulari, e presto anche smartwatch e pc portatili, sono quelli che capiscono che cosa stiamo fotografando e si adeguano automaticamente per rendere il cibo più invitante o i ritratti più belli; oppure ascoltano i suoni intorno a noi mentre telefoniamo e riducono i rumori; oppure semplicemente sono così veloci da poter processare moltissime informazioni e risultare degli assistenti vocali capaci quasi di tutto. Sono dispositivi dotati di un cristallo di conoscenza, capaci d'imparare dal nostro modo di usarli.

« Io la chiamo “Intelligent society”, società intelligente. È quella in cui la tecnologia non solo mi permette di fare ciò che voglio, ma mi conosce e, in certe situazioni, può anche essere me »

Incontro Yu a Shanghai, la città più dinamica della strana Cina di oggi che il 16 febbraio festeggerà l’inizio dell’anno del Cane, quello in cui - si dice - nascono le persone più determinate e brillanti. Lontano dai lussuosi centri commerciali che sorgono ai piedi della Shanghai Tower, 632 metri, il secondo grattacielo più alto del mondo dopo il Burj Khalifa di Dubai, la sede di Huawei è un lungo edificio costeggiato da un giardino selvaggio e da un corso d’acqua densa e scura. È qui che bisogna venire per avere un assaggio del futuro.

Mentre il ceo sorseggia un tè seduto alla sua scrivania, nella stanza accanto ci sono ingegneri che mostrano in azione il 5G, cioè la quinta generazione dell’internet senza fili che sarà indispensabile non solo per giocare con le applicazioni di realtà virtuale dei nostri cellulari, ma anche per far funzionare le automobili senza conducente o alimentare intelligenze artificiali sempre più complesse. Yu non lo dice, perché sarebbe scortese, ma ai suoi occhi chi ha intasca uno smartphone da 1500 euro non è per lui molto diverso da quei contadini che da giovane vedeva faticare sui campi: solo che, in qualche laboratorio, il team di Huawei ha già creato la prossima tecnologia di cui non potremo fare a meno.

«Oggi», dice il manager in un inglese lento ma puntuale, «usiamo ancora tanto le mani sui nostri apparecchi: presto, grazie all’evoluzione dei dispositivi d’intelligenza artificiale e del 5G, ci capiranno benissimo. Un domani non ci saranno solo gli “smartphone”, ma gli “intelligent phone”». Scusi, ma che differenza c’è? «La fotocamera del cellulare saprà chi sei, potrà leggere le tue emozioni, sarà un assistente personale senza gambe e braccia». Entro il 2025, sono le stime, ci saranno 40 miliardi di “personal smart devices”, quindi telefoni, tablet, ma anche automobili, elettrodomestici, hub di vario genere.

Quest’idea di un futuro senza cellulare in tasca da tirare fuori e sbloccare me l’aveva anticipata poche ore prima James Zou, general manager consumer Italia: «Non dobbiamo rimanere ancorati all’idea dello smartphone tradizionale: una volta che riusciremo a far viaggiare tanti dati nell’aria, ogni supporto potrà essere “smart”». L’ossessione di Huawei per la trasmissione delle informazioni è motivata: l’azienda si è sempre definita una “infrastructure company” e degli 87 miliardi di dollari fatturati dal gruppo, quasi la metà deriva dal business legato alle antenne e alla fibra ottica. In Italia, per dire, è Huawei un cellulare su tre, un tablet su cinque, ma anche la metà dei cavi attraverso i quali internet arriva nelle nostre case e uffici. Non credo esisterà mai un interruttore che possa spegnerli tutti insieme, ma se esistesse, sarebbe probabilmente in uno di questi uffici di Shanghai.

Richard Yu è proprio l’ingegnere che, brevettando una sorta di scatola magica, ha permesso la diffusione nelle città di tutto il mondo di antenne per cellulari che non facessero precipitare il segnale mentre siamo in movimento. Tuttavia, quando gli chiedo quale sia stata l’innovazione più importante della sua carriera, risponde: «L’inserimento dell’intelligenza artificiale nei nostri processori Kirin 970. Quando riesci a mettere insieme tante tecnologie evolutive in un dispositivo che sta in tasca, arrivi a un punto in cui puoi quasi fare una rivoluzione».

« Ripetiamo sempre che la tecnologia può creare cose buone o cattive, dipende dall’uso che ne facciamo. È così, ma io credo che se le macchine faranno di più per gli esseri umani, gli esseri umani potranno fare di più ciò che amano. Godersi la vita, una vita nuova »
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Questa nuova rivoluzione cinese è però molto lontana da quella di Mao Zedong che abbiamo studiato sui libri di scuola. Un nome d’impatto gliel’ha trovato Wan Biao, 46 anni, direttore operativo consumer business di Huawei, forse il dirigente del gruppo cinese che più sembra arrivato dal futuro. «Io la chiamo “Intelligent society”, società intelligente. È quella in cui la tecnologia non solo mi permette di fare ciò che voglio, ma mi conosce e, in certe situazioni, può anche essere me». Essere me. Lo dice così, come se fosse la cosa più naturale al mondo.

Per Biao la storia può essere scandita in poche tappe: abbiamo impiegato 2000 anni per passare da una società agricola a una industriale, 200 per arrivare a costruire un computer che battesse l’uomo a scacchi, 20 per crearne uno dotato d’intelligenza artificiale che ci battesse anche a Go, il gioco cinese con un numero di mosse possibile imprevedibile anche per una macchina. Il nostro presente per Biao è ancora quello della “Digital Ape Era”, cioè l’era dei primati digitali: siamo, cioè, come gli antenati dell’Homo Sapiens - curvi, ma sui nostri schermi capacitivi da otto pollici.

«Ma nella storia è sempre così», mi tranquillizza, «si inizia guardando in basso, poi pian piano ci si evolve a testa alta: oggi comandiamo i nostri apparecchi in modo fisico, domani potremo usare gesti, parole, magari in futuro anche le nostre emozioni, le onde cerebrali, chissà. La sfida più appassionante, però, sarà il passaggio da una vita concepita come solo fisica a una anche digitale».

A questo punto la reazione dell’uomo medio che ancora fatica a ricordare le sue password è un misto d'incredulità venato da un filo di paura. Ci pensa Richard Yu a mettere in prospettiva la questione: «Ripetiamo sempre che la tecnologia può creare cose buone o cattive, dipende dall’uso che ne facciamo. È così, ma io credo che se le macchine faranno di più per gli esseri umani, gli esseri umani potranno fare di più ciò che amano. Godersi la vita».

Una vita tutta nuova.

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«Se la strage in spiaggia o il saccheggio alla Stampa sono definiti "resistenza"»: l'editoriale di Silvia Grilli

Silvia Grilli
Il nuovo numero di Grazia è ora in edicola. Ecco l'editoriale della Direttrice Silvia Grilli

La resistenza è necessaria con ogni mezzo», «con Hamas fino alla vittoria», «ora e sempre resistenza». Sono slogan che sentiamo nelle piazze di tutto il mondo alle manifestazioni contro Israele.

Per chi li inneggia possono essere innocua teoria, opinioni a favore della Palestina o semplicemente parole urlate per non sentirsi esclusi dal gruppo, non una chiamata alle armi per massacrare i presunti oppressori. Ma c'è sempre chi prende la teoria alla lettera. Domenica 14 dicembre, quegli slogan sono stati scritti con il sangue degli ebrei.

Un padre e un figlio pachistani hanno sparato sulla folla che celebrava il primo giorno della festa religiosa ebraica dell’Hanukkah su una spiaggia famosa per le nuotate al tramonto. Quindici morti e decine di feriti sono rimasti sulla sabbia a Bondi Beach, uno dei posti più belli, pacifici e gioiosi dell’Australia. Il primo ministro Anthony Albanese ha dichiarato che non riesce a spiegarsi tutto questo male. Io credo sia molto spiegabile: per gli invasati che considerano Israele il male assoluto, massacrare gli ebrei è fare giustizia.

È la colpa dei giudei che spinge giovani ProPal a saccheggiare la redazione del quotidiano La Stampa (paradossalmente uno dei più favorevoli alla causa palestinese). Induce quel centinaio di manifestanti a scrivere e urlare slogan terroristi come “Stampa-Morta” o «giornalista sei il primo della lista», mentre una loro guru, Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite, riduce l'assalto a un «monito ai giornalisti».

Nella tradizione ebraica, Hanukkah è la festa della luce, della speranza. Colpire bambini, anziani e adulti che festeggiano la vita non è diverso da quando il 7 ottobre i terroristi di Hamas fecero strage al Nova Festival. Sparare sulla spiaggia in un momento storico in cui c'è qualche passo verso la pace è voler cancellare la speranza nel futuro.

Eppure, ho ancora fiducia che l’umanità possa superare l’odio. Domenica 14 dicembre, in Australia, questa speranza aveva i gesti di un uomo: Ahmed Al Ahmed, fruttivendolo immigrato siriano, che si è precipitato su uno dei terroristi e gli ha strappato il fucile. Aveva le gambe di Jackson Doolan, il bagnino veterano della spiaggia, ex star di Baywatch in Australia, che è corso a piedi nudi per un chilometro e mezzo portando il borsone dei medicinali. Aveva le braccia di tutti coloro che si sono adoperati per salvare le vittime, sollevandole sulle tavole di soccorso che di solito vengono usate per trasportare la gente a riva.

Gli orrori si ripetono, sembrano non volersi fermare. Ma se le persone corrono ad aiutare, se ci sono solidarietà e compassione, c’è ancora speranza nell’umanità.

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Grazia è in edicola con Maya Hawke

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Ecco cosa vi aspetta nel nuovo numero di Grazia, da oggi in edicola e su app

Maya Hawke è la protagonista di copertina Grazia in edicola e app. Si è fatta conoscere con la serie Stranger Things, arrivata all’ultima stagione. Ora l’attrice newyorkese figlia delle star Uma Thurman ed Ethan Hawke, girerà il nuovo capitolo di Hunger Games dove vuole portare l’energia di chi non ha paura di crescere.

Questa settimana intervistiamo alcune icone di Hollywood. Incontriamo Zoe Saldana, al cinema nel ruolo di Neytiri, la madre combattente di Avatar. Parliamo con Ariana Grande, in corsa ai Golden Globe con Wicked e le attrici premio Oscar Jodie Foster e Laura Dern.

Il 2025 ha cambiato noi e la Storia. Grazia lo ripercorre. Dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca alla guerra a Gaza. Dalle vittorie di Jannik Sinner all’elezione del primo Papa americano fino alla scomparsa di icone come Ornella Vanoni e Giorgio Armani.

Grazia ha scelto i personaggi da tenere d'occhio nel 2026: le sciatrici Sofia Goggia e Lindsey Vonn attese alle Olimpiadi invernali, María Corina Machado, premio Nobel per la Pace che potrebbe cambiare le sorti del Venezuela, Lady Gaga in arrivo in concerto in Europa e molti altri. Da Can Yaman a Jacob Elordi, da Timothée Chalamet a Jeremy Allen White, che cos’hanno in comune i nuovi sex symbol? Mettono d’accordo mamme e figlie. Grazia ve li racconta.

Abiti dorati, trasparenze, ricami e dettagli preziosi. Grazia ha scelto i capi che ti rendono protagonista delle notti di festa e delle serate più speciali. Ma anche lo stile più cool per il 2026.

E nelle pagine dedicate alla bellezza trovate tutti i segreti per brillare: dalle strategie effetto freddo per una pelle più tonica alla scelta del fondotinta e del correttore giusti per illuminarla.

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Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"

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Jodie Foster festeggia al cinema 60 anni da star. Nel thriller Vita privata, da oggi nelle sale, è una psicanalista tormentata. Ma a noi racconta come, grazie alla sua carriera, ha capito che le donne over 50 hanno tutte le carte per vincere

Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.

Che rapporto ha con il passare del tempo?

«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».

Davvero?

«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».

Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.

«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».

Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?

«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».

Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?

«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».

Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…

«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare». 

Come mai?

«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».

Che cosa le disse al ritorno?

«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».

Ha fatto lo stesso con i suoi figli?

«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».

Che rapporto ha con la psichiatria?

«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».

Com’è andata?

«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».

E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?

«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il  corpo».

Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?

«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».

Che cosa di lei non hanno mai capito finora?

«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».


Com’è la sua giornata ideale?

«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».

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Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli

Elena Valzania x Alleanza
L'eredità di famiglia può assicurare un sostegno economico ai propri cari. Basta sottoscrivere una polizza di investimento adeguata, affidandosi a un bravo consulente

Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».

A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.

La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.

Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».

Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela

RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)

1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».

2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni? 
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».

Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com